mercoledì 14 marzo 2012
La libertà religiosa nel Regno Unito
Continua a sollevare confronti serrati e polemiche il tema della libertà religiosa nel Regno Unito, in particolare riferimento ai divieti (con conseguenti sanzioni in caso di violazione) posti da alcuni datori di lavoro ai propri dipendenti di indossare simboli religiosi, come il crocifisso. Attualmente due casi di discriminazione di donne lavoratrici cristiane — dopo essere stati vagliati dai tribunali nazionali — sono oggetto di ricorsi presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Secondo quanto anticipato in un articolo del quotidiano «Daily Telegraph», lo stesso Governo britannico si accingerebbe a difendere le disposizioni di fronte al tribunale di Strasburgo. I due casi riguardano una hostess della compagnia aerea British Airways, Nadia Eweida, che alcuni anni fa era stata sospesa perché portava una catenina al collo con appeso un crocifisso durante il servizio e un’infermiera, Shirley Chaplin, che ha rischiato anch’essa il licenziamento per aver indossato al collo una catenina con una piccola croce, mentre assisteva i pazienti.
La Corte europea dei diritti dell’uomo è prossima al pronunciamento su i due casi in questione, mentre nel Paese montano le polemiche. Secondo l’articolo il Governo, chiamato in causa dallo stesso tribunale di giustizia europeo, riterrebbe che i cristiani non hanno diritto di indossare simboli religiosi, in quanto non sarebbero un requisito obbligatorio previsto dalla loro fede (contrariamente invece ad alcune comunità musulmane, che prevede che le donne, per manifestare il proprio sentimento religioso, debbano indossare gli abiti tradizionali che coprono integralmente il corpo — burqa—, o che lasciano soltanto liberi gli occhi come nel caso, invece, del niqab). La posizione del Governo, secondo sempre l’organo di stampa, sarebbe riassunta in un documento nel quale il Governo considererebbe di conseguenza legittimo che i datori di lavoro possano applicare sanzioni ai propri dipendenti.
La posizione del Governo ha acceso la polemica. L’ex arcivescovo di Canterbury, lord George Leonard Carey, ha accusato le autorità britanniche di voler «dettare» ai cristiani la loro volontà e ha affermato che la posizione assunta nei confronti della comunità costituisce un altro esempio del tentativo di marginalizzare il sentimento religioso. Un membro della Camera dei Lord, David Alton, ha osservato che «sono ancora i cristiani a essere presi di mira e non i fedeli di altre religioni». Per il Governo, in particolare, la questione delle due lavoratrici cristiane non rientrerebbe nell’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà che formalmente riconosce il diritto a manifestare apertamente il proprio credo religioso, salvo alcune particolari eccezioni. Tuttavia, il sindaco di Londra, Boris Johnson, in un altro articolo, sempre del «The Daily Telegraph» ha definito «un’idiozia» non rispettare la croce come simbolo di manifestazione della propria fede sui luoghi di lavoro.
Numerosi presuli e altri rappresentanti della Comunione anglicana hanno sottolineato la loro opposizione ai tentativi di discriminazione dei cristiani, proponendo una condanna pubblica da parte del Sinodo Generale. Anche dall’episcopato cattolico si osserva che i casi che coinvolgono alcuni lavoratori sono stati esaminati dai tribunali britannici in maniera non conforme a quanto stabilito dalla Convenzione europea. In un documento del 2011 del Department for Christian Responsibility and Citizenship della Conferenza episcopale d’Inghilterra e Galles, si sottolinea fra l’altro che la normativa europea prevede che ogni ulteriore restrizione alla manifestazione del proprio credo «che non sia necessaria è da considerarsi illegale» e che comunque le restrizioni considerate «necessarie» non devono considerarsi come «auspicabili», lasciando quindi spazio a valutazioni ben più ampie. Altri casi di discriminazione per motivi religiosi sono al vaglio dei giudici inglesi. Nel Paese è fra l’altro in vigore il Religious Discrimination provision of the Employment Equality Regulations, ora incorporata nell’Equality Act, la cui applicazione fa spesso sorgere aspri contrasti.
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