mercoledì 14 marzo 2012

14 Marzo 2008 – Tibet: L'esercito della Repubblica Popolare Cinese spara sui monaci manifestanti; decine i morti

2008 – Tibet: L'esercito della Repubblica Popolare Cinese spara sui monaci manifestanti; decine i morti. Lhasa è in fiamme. La polizia militare, intervenuta in forze per mettere a tacere le proteste ha sparato sui manifestanti, monaci e laici tibetani, ferendone un numero imprecisato. Secondo l’emittente Radio Free Asia "almeno due persone" (una ragazza di 16 anni e un monaco) sono rimaste uccise. Testimoni hanno detto all’Ansa di aver visto persone in borghese su delle automobili sparare sulla folla, e hanno descritto strade "piene di sangue". La stessa agenzia Nuova Cina - ma solo nella sua edizione in inglese - ha confermato che "ci sono dei feriti, che sono stati ricoverati in ospedale" dopo che testimoni avevano riferito di aver udito numerosi colpi di arma da fuoco. Le proteste sono iniziate intorno alle dieci locali della mattina, quando centinaia di monaci del piccolo monastero di Ramoche, nel centro di Lhasa e non lontano dal Barkor, la passeggiata sacra che gira intorno al tempio di Jokhang, hanno dato vita ad una manifestazione inneggiando al Dalai Lama, il loro leader spirituale che vive in esilio dal 1959. Testimoni hanno raccontato che erano presenti pochi agenti di polizia, che non sono riusciti ad impedire a numerosi civili di unirsi ai monaci. Il grosso delle forze della polizia militare - il corpo addetto al controllo dell’ordine pubblico - è arrivato intorno alle 11:30, sparando gas lacrimogeni e attaccando i manifestanti con bastoni. Alcuni dei presenti hanno reagito e presto i disordini si sono estesi al vicino mercato di Tromisikhang, dove sono stati attaccati e dati alle fiamme negozi appartenenti ai cinesi. Le fiamme si sono presto estese ad altre parti del mercato. Le violenze sono proseguite almeno fino alle 16:30 locali, secondo testimoni. Anche due automobili della polizia militare sono state rovesciate e date alle fiamme. L’ondata di proteste, la più estesa dal 1989, quando l’allora segretario del Partito Comunista del Tibet e oggi presidente cinese Hu Jintao impose la legge marziale, è iniziata lunedì scorso, con una manifestazione nel monastero di Drepung, pochi chilometri fuori dalla città. In questa occasione ci sarebbero stati decine di arresti. Il giorno dopo sono stati i monaci di Sera, un altro monastero poco fuori dalla capitale, a dare vita ad una mafestazione di protesta nel centro di Lhasa, nei pressi del Barkor. Lunedì 10 marzo, anniversario della rivolta anticinese del 1959 che si concluse con la fuga in India del Dalai Lama, proteste si sono verificate anche nelle aree a maggioranza tibetana delle province del Gansu e del Qinghai (la regione che i tibetani chiamano Amdo). Attivisti della Free Tibet Campiagn riferiscono che "alcuni" lama di un altro monastero, quello di Sera, sono da ieri in sciopero della fame per chiedere la liberazione dei loro compagni arrestati nei giorni scorsi. Due monaci sarebbero in gravi condizioni dopo aver tentato di suicidarsi. I monasteri di Sera, Drepung e Ganden, centro delle proteste dei giorni scorsi, sono circondati dalla polizia militare, aggiungono i testimoni. Le voci sulla dichiarazione dello stato d’ emergenza, che circolano da alcune ore, non sono state confermate. Gli incidenti non potrebbero avvenire in un momento peggiore per la Cina.
Mancano 147 giorni all’apertura delle Olimpiadi di Pechino, che avrebbero dovuto segnare la "pacificazione" tra la Cina e il resto del mondo dopo il massacro di studenti del 1989 a piazza Tiananmen. Tutti i leader delle province - compresi quelli della Regione Autonoma del Tibet - sono a Pechino per partecipare all’Assemblea Nazionale del Popolo che nei prossimi giorni deve eleggere il nuovo governo. L’Unione Europea ha chiesto a Pechino di "trattenersi" nella repressione della rivolta, mentre Usa e Gb hanno sottolineato che la Cina "deve rispettare" la cultura tibetana. Dal suo esilio di Dharamsala, in India, il Dalai Lama ha chiesto alla Cina di "rinunciare all’ uso della forza" e ai suoi compatrioti di ricorrere solo a proteste pacifiche. La Cina ha occupato il Tibet nel 1950. Trattative tra il Dalai Lama - che ha 72 anni ed ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1979 a riconoscimento del suo impegno per la non-violenza - ci sono state all’ nizio degli anni Ottanta quando a Pechino era al potere il riformista Hu Yaobang. Dopo il fallimento di quel tentativo, i contatti sono stati interrotti fino al 2002, quando è iniziata una tornata di incontri che si è conclusa con un nulla di fatto nel 2006. Poco dopo, la propaganda cinese ha lanciato pesanti accuse al leader tibetano, tra cui quella di aver fatto assassinare almeno quattro oppositori e di essere stato un promotore della setta giapponese Aum Shirikyo, responsabile di attentati che hanno causato la morte di decine di persone. APPELLO DALAI LAMA, PRIME FOTO DEGLI SCONTRI Si è fatta sentire anche la voce del Dalai Lama, esiliato in India, nella giornata che ha contato le prime vittime degli scontri in corso da alcuni giorni in Tibet tra la popolazione che protesta contro l’occupazione cinese e le forze dell’ordine di Pechino. Il leader spirituale dei buddhisti tibetani e capo del governo tibetano in esilio, ha fatto "appello alle autorità cinesi, affinché smettano di usare la forza e indirizzino il risentimento a lungo covato dal popolo tibetano verso il dialogo con il popolo tibetano stesso. Nello stesso tempo esorto i miei compatrioti tibetani a non fare ricorso alla violenza". Per il Dalai Lama, che ha affidato il duo doloroso appello ad un comunicato stampa, "queste proteste dimostrano il profondo risentimento della gente del Tibet verso l’attuale governo. Come ho sempre detto, l’unità e la stabilità ottenuti dalla violenza bruta possono al massimo essere una soluzione temporanea. E’ irrealistico aspettarsi unità e stabilità sotto un simile governo e questo non contribuirà a trovare una soluzione pacifica e durevole". Il leader tibetano, da sempre portavoce della richiesta del suo popolo di ottenere per il Tibet una piena autonomia sotto il controllo cinese (non indipendenza dal governo di Pechino, ha sempre sottolineato) non ha rilasciato altre dichiarazioni dai suoi uffici di Mc Leodgaji, il quartiere amministrativo nei pèressi di Dharamsala, a nord di New Delhi, dove ha sede il governo tibetano in esilio. In giornata hanno cominciato a circolare anche le prime fotografie degli scontri in Tibet. Sui cellulari e nelle caselle di posta elettronica di attivisti tibetani in India, sono arrivate foto scattate con i cellulari. Oltre agli incendi a Lhasa, le foto mostrano immagini di monaci che sfilano con la bandiera tibetana per le vie di Labrang, sede di uno dei più importanti monasteri buddhisti. Manifestanti civili, sempre a Labrang sono stati fotografati mentre protestano dinanzi ad uffici governativi, mentre altre foto mostrano la polizia cinese schierata e alcune auto bruciate. Le proteste tibetano non hanno avuto molta eco sui media indiani, che le hanno relegate in fondo ai notiziari, nonostante proprio qui si sia stabilito nel 1959 il Dalai Lama in fuga da Lhasa. La stessa polizia indiana tiene in prigione sia le 36 donne che tre giorni fa a New Delhi hanno manifestato dinanzi all’ambasciata cinese, sia un centinaio di attivisti che stanno tentando di portare avanti la ’Marcia del ritorno’ in Tibet e che sono stati condannati a 14 giorni di carcere. Comunque anche la protesta e il dissenso indiani viaggiano sui cellulari e sul web. Molti gli sms che chiedono di partecipare alla campagna pro-Tibet. Nessuna protesta oggi in Nepal, altro paese dove sono migliaia gli esuli tibetani. Ma il governo di Kathmandu, accogliendo una richiesta da Pechino, ha deciso di chiudere gli accessi all’Everest in occasione del passaggio della fiaccola olimpica, dall’1 al 10 maggio. Gli Stati Uniti hanno espresso oggi "rammarico" per la violenza in Tibet ed hanno richiamato la Cina al "rispetto della cultura tibetana". "La Cina deve rispettare la cultura tibetana e deve rispettare il carattere multietnico della sua società", ha detto il portavoce della Casa Bianca Gordon Johndroe. "Esprimiamo rammarico per le tensioni tra i gruppi etnici e Pechino", ha aggiunto Johndroe. Il portavoce ha ricordato che il presidente George W. Bush "ha sempre detto che Pechino deve dialogare con il Dalai Lama". Gli Stati Uniti hanno tolto pochi giorni fa la Cina dalla lisat nera dei paesi responsabili delle peggiori violazioni dei diritti umani. Nello stesso tempo avevano sottolineato che le autorità di Pechino stanno continuando a violare tali diritti e numerose libertà di base.

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