lunedì 11 marzo 2013

La Messa pre-Conclave 2005, quando il cardinal Ratzinger parlò da Benedetto XVI



Il pomeriggio del 18 aprile 2005, iniziava il Conclave che avrebbe portato all’elezione di Benedetto XVI. Per una coincidenza ormai entrata nei libri di storia, quella stessa mattina fu lo stesso Joseph Ratzinger, in veste di cardinale decano, a presiedere nella Basilica di San Pietro la Missa pro eligendo Pontifice. Alla vigilia dell’analoga celebrazione che domani aprirà il Conclave ecco alcuni passaggi centrali dell’omelia di colui che, il giorno dopo, si sarebbe presentato alla Chiesa come il 264.mo Successore di Pietro: 
Trenta ore prima, l’umile lavoratore non parla della Vigna del Signore, ma di come la terra possa essere cambiata “da valle di lacrime in giardino di Dio”: ci vogliono, dice, cristiani dotati di una “fede adulta”, che siano amici di Cristo e nemici del relativismo. Trenta ore prima, guardato dalle telecamere del mondo, il cardinale Ratzinger è come se prendesse spiritualmente per mano la Chiesa con un giorno di anticipo sulla storia. In piedi sull’altare della Confessione, vestito nei paramenti rossi, l’amico di Giovanni Paolo II parla esattamente come – dal giorno dopo e per otto anni – parlerà Benedetto XVI. Impressiona rileggere l’omelia di quella mattina alla luce del magistero che ora si conosce. Alle 10.31, quando inizia a parlare, il cardinale Ratzinger non fa altro che commentare le letture previste dalla liturgia della Messa. La riflessione che ne scaturisce è però un appassionato e sintetico preludio del magistero che verrà. A cominciare da quell’ormai celebre osservazione, mutuata da San Paolo, per cui coloro che sono “fanciulli nella fede” sono facilmente “sballottati” qua e là “da qualsiasi vento di dottrina”:
“Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo fino al libertinismo…”.
L’elenco continua: dal collettivismo all’individualismo radicale, dall’ateismo ad un vago misticismo religioso, dall’agnosticismo al sincretismo. Derive contro le quali il cardinale muove la medesima obiezione che ribadirà mille volte da Papa:
“Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare ‘qua e là da qualsiasi vento di dottrina’, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.
Non è difficile da capire quando spiega cosa voglia dire avere una “fede adulta”:
“’Adulta’ non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità”.
È il cardinale anziano che sta parlando, non il Papa, ma forse qualcuno, in quei 29 minuti, non avrà notato la differenza. Forse neanche quando, quell’uomo in piedi vestito di rosso, tira le conclusioni del suo discorso scrutando i cardinali e, attraverso di loro, il futuro della Chiesa, che sta per giungere. E che trenta ore dopo lo vedrà riapparire con un abito diverso e con la stessa luminosità e saldezza di fede:
“Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo (...) E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio”. 
Grazie Joseph e "bonne chance" al tuo successore

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