giovedì 17 ottobre 2013

Elezioni: per risparmiare il governo pensa di tornare al voto esclusivamente domenicale.

                                   
                               Ma perchè in questo paese i tagli si fanno soltanto sulle cose utili?

Nell’Italia repubblicana è tradizione consolidata votare alle «politiche» prevedendo un’«apertura lunga» dei seggi: l’intera domenica e il lunedì mattina. C’è solo una parentesi di nove anni (1993-2002) in cui invece è stato sperimentato con alterni successi l’«election day» limitato alla sola giornata festiva. Ora il governo Letta cambia di nuovo marcia e chiede di cancellare l’«anomalia italiana» per allineare il nostro Paese al resto d’Europa, dove si vota nell’arco di un solo giorno (in Grecia addirittura i seggi chiudono al tramonto).
Se è vero che l’apertura dei seggi limitata alla domenica «consente un risparmio secco di 100 milioni di euro», come argomenta il presidente del Consiglio illustrando la legge di Stabilità, conviene però volgere lo sguardo a un recente passato in cui una scelta del genere, combinata con altre variabili più che prevedibili, provocò un autentico disastro. Era la sera del 13 maggio 2001 - governo Amato, ministro dell’interno Bianco - con code, urla e interventi della polizia per consentire a tutti i cittadini in coda di votare.
E forse, sempre alla luce della norma voluta da Enrico Letta, sarebbe utile anche guardare in avanti per capire, per esempio, se la riduzione dell’orario di apertura dei seggi porta con sé anche un calo dell’affluenza. «Certo», risponde il politologo Roberto D’Alimonte, «i ritardatari ce li perderemmo per strada, ma io sono un pragmatico. L’1% di votanti in meno potrebbe essere il prezzo ragionevole da pagare per uniformarci agli standard europei. E poi, anche se vado contro gli interessi di chi come me studia la politica, abbiamo davvero troppe sezioni elettorali rispetto alle altre democrazie europee».
La storia, comunque, inizia 20 anni fa. Un disegno di legge del ‘93 (election day solo la domenica) e la Finanziaria del ‘97 (riduzione di 31.084 sezioni elettorali, un terzo del totale) furono le due decisioni all’origine del disastro del 13 maggio del 2001, la tornata elettorale in cui gli italiani si ritrovarono in coda davanti ai seggi fino a mezzanotte inoltrata con 5 o addirittura 6 schede da decrittare. A peggiorare la situazione, dunque, nel 2001 arrivò anche il carico da novanta della contemporaneità delle elezioni politiche, provinciali e, in alcuni casi, anche comunali.
Quella domenica a Reggio Calabria, a Napoli e a Roma si votò fino alle ore piccole perché i sindaci non si erano adeguati alle disposizioni ministeriali di allestire anche la terza e la quarta cabina in ciascuna sezione. Ci si mise pure l’abitudine tutta meridionale di andare tardi al seggio, quando fa meno caldo, con il risultato che sotto la Linea gotica la chiusura prevista per le 22 fu una disfatta. A Ravenna, invece, con ben 6 schede da inserire nell’urna, filò tutto liscio. «Dal Viminale avevamo informato per tempo i sindaci di predisporre la terza e la quarta cabina ma in alcune grandi città del centro sud non seguirono questa indicazione che fu all’origine delle code», ricorda a 12 anni di distanza il prefetto Mario Morcone, allora direttore generale dell’amministrazione civile del ministero dell’Interno.
E così il ministro dell’Interno Enzo Bianco, impotente davanti alle code estenuanti immortalate dai Tg della sera, fu costretto a diramare ordini precipitosi per consentire a decine di migliaia di cittadini «in attesa nei pressi dei seggi» di poter esercitare il diritto di voto. Il disappunto del presidente del Consiglio, Giuliano Amato, fu grande anche perché due ministri del suo governo (Bianco e Bassanini) avevano insistito per accorpare al mega election day anche il referendum sul federalismo.
Nel 2002, il ministro dell’Interno Claudio Scajola (governo Berlusconi) presentò un disegno di legge per ripristinare il voto in due giornate, domenica e lunedì mattina, «per ridurre astensionismo e disagi nei seggi». La serie storica dell’affluenza alle urne è comunque ondivaga e dice che tra il ‘93 e il 2001 (voto solo di domenica) la percentuale passa dall’ 86,1% all’81,3%. Poi nel 2006 (con il voto ripristinato anche di lunedì) affluenza in salita, all’83,6%, e di seguito ancora in discesa nel 2008, fino all’80,5%, prima del capitombolo al 70,5 del 2013.

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