giovedì 19 luglio 2012

Strage di via D'Amelio... racconti dalla Rete



La prima immagine è un particolare della grande tela. Tutto è racchiuso in uno spazio di trenta metri di lunghezza e dieci di altezza. È un’inquadratura cinematografica, non c’è profondità di campo; tutto è anzi piuttosto schiacciato.
Il giudice è arrivato con la sua scorta in via Mariano D’Amelio, dove abita l’anziana madre. Sono tre macchine in tutto, imbottite di qualche quintale di metallo nelle portiere, con i vetri resi anch’essi pesantissimi, che viaggiano nervose, ruggendo, perdendo olio, quasi toccando l’asfalto, spesso facendo scintille, tirando la prima fino a cento all’ora, con sirene laceranti. E uomini armati che, sporti dai finestrini, agitano mitragliette per fermare il traffico al loro passaggio. Dicono che queste macchine siano ordigni testati per resistere anche a un colpo di bazooka. A Palermo sono il simbolo dello stato; ed è un simbolo paradossale, perché mostrano, infatti, lo stato che non è padrone del territorio; anzi, un intruso. La gente, il popolino, ma anche la piccola borghesia, e anche quella grande – insomma, un po’ tutti –, si lamenta dell’arroganza delle scorte.
Dieci anni prima, nel 1982, un generale dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, arrivato a Palermo come prefetto con “ampi poteri” contro la mafia, si era opposto a questa umiliazione. Viaggiava con una piccola utilitaria, una A112, guidando di persona e tenendo a fianco la giovane moglie milanese. Cosa nostra aveva ringraziato questo suo ottimismo, questa sua sfida risorgimentale, uccidendo lui e la moglie con maggiore facilità del previsto.
Ecco il convoglio che arriva rombando nella breve via Mariano D’Amelio. La scorta conosce bene l’indirizzo e sa come muoversi. Sono quasi le 17. Borsellino lascia la borsa sul sedile posteriore della sua Fiat Croma blindata – dentro ci sono un’agenda, delle carte processuali e un costume da bagno –; l’autista Antonio Vullo parcheggia. Dalle altre due macchine del convoglio scendono gli agenti della sua scorta. Sanno quello che devono fare: essenzialmente circondare il corpo del giudice, come una corazza o uno scudo umano. Se un cecchino sparasse con un fucile di precisione (nella mafiosissima città di Reggio Calabria ci sono state tre uccisioni compiute da un cecchino che ha sparato da trecento metri di distanza, dicono sia un superkiller a contratto, venuto dall’Est), morirebbe uno di loro, ma non lui.
C’è da fare solo una ventina di metri, la testuggine umana li fa di corsa, Borsellino schiaccia (“ammacca”, come dicono i palermitani) il pulsante del citofono dove è scritto “Fiore-Borsellino” e in quel momento scoppia la bomba.
L’autista di Borsellino è uno dei pochi a vedere, ma solo per una frazione di secondo. Sbalzato, ferito, nella Fiat Croma, ricoverato incosciente in ospedale, sarà l’unico a sopravvivere. Muore Paolo Borsellino, muore il caposcorta Agostino Catalano, muoiono Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi. Quest’ultima, ventiquattrenne di Sestu, in provincia di Cagliari, è la prima donna poliziotto a essere uccisa in servizio.
Appena cinquantasei giorni prima, sull’autostrada per Punta Raisi, insieme a Giovanni Falcone e a sua moglie Francesca Morvillo erano stati uccisi i poliziotti Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Si era salvato l’autista Giuseppe Costanza. Ed erano rimasti feriti gli agenti Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello, Angelo Corbo.
In due spettacolari e – per lei – rischiosissimi attentati, in meno di due mesi Cosa nostra ha dunque ucciso tre magistrati e otto poliziotti; ne ha feriti cinque. Lei invece non ha avuto perdite. A Capaci si è alzata l’autostrada come un’onda di pietra, ma nessun estraneo si è fatto male. In via D’Amelio sono saltati tutti i vetri di un palazzo di dieci piani, si è sollevato l’asfalto, si sono gonfiati i muri, decine di persone sono rimaste ferite per essere state sbalzate o tagliate, ma nessuno è morto. Nessun condomino, nessun ragazzino, nessun passante. Cosa nostra non ha da chiedere scusa a nessuno, è una sovrana rispettosa dei suoi sudditi. I danni all’edificio saranno rimborsati dal comune di Palermo. Lo stato italiano è fatto così: a Cosa nostra non presenta mai il conto; ma per i disagi causati ha creato un apposito “fondo”.
La seconda scena è un po’ più allargata. Mezza città ha sentito il botto, descritto come un muggito che veniva della terra. Da diversi quartieri si è notata una colonna di fumo nero. Tutti quelli che possono chiamano con i telefoni cellulari, una novità che a Palermo ha avuto molto successo. La prima notizia dell’agenzia Ansa parla di una bomba in via della Regione Siciliana e si sparge la voce che sia stato ucciso il giudice Giuseppe Ayala, che vive in un residence proprio in quella via. Ma non è così: Ayala stesso è tra i primi ad arrivare sul luogo dell’esplosione. Via D’Amelio, corta e a fondo cieco, si popola in breve di centinaia di persone. Abitanti del quartiere, giornalisti, poliziotti, carabinieri, vagano in mezzo a brandelli di cadavere. Alcuni pezzi vengono messi pietosamente in una carriola, altri sono spiaccicati sul muro del civico 19-21. Bambini a piedi nudi si feriscono con i frammenti di vetro. Persone escono sotto shock dagli appartamenti; ambulanze, vigili del fuoco con idranti. Ululano gli antifurto.
In un’improvvisa e imprevista scena di guerra – un pomeriggio afoso, la giornata di domenica; l’estate – nessuno ha il comando delle operazioni. Non viene posta nessuna recinzione, rottami di macchina vengono raffreddati con acqua fredda. Arrivano colleghi di Borsellino, arriva suo figlio Manfredi. Il giudice Ayala (“sentivo il fetore della morte, una morte di cui ero parte”) si trova fra le mani la borsa del suo amico, recuperata dalla Fiat Croma. Non sa se tenerla, non ne ha il diritto, la affida a un ufficiale dei carabinieri. Tutti si agitano, i vigili del fuoco filmano, e così le televisioni. La scena del delitto nella sua integrità è irrimediabilmente compromessa.
Alla fine del XIX secolo, l’investigatore Sherlock Holmes quando arrivava con la sua lente a esaminare impronte sul luogo di un omicidio inglese, in genere rimproverava gli ispettori di Scotland Yard per non aver protetto la zona. Frugava nella mota, alla ricerca di impronte (umane o di animali), di cenere di sigaro, di fiammiferi spenti, ma invariabilmente sospirava: “Posso fare molto poco, qui è passata una mandria di bufali”. Ma non si sarebbe mai permesso di sospettare che la polizia avesse manomesso intenzionalmente la scena del delitto. Deplorava la sciatteria; che ci fosse malizia era per lui assolutamente impensabile.
Intorno alle 18 (quindi, praticamente subito) i corrispondenti dell’agenzia Ansa inviano un dispaccio con informazioni ottenute da esponenti della polizia presenti sul luogo. L’attentato è stato compiuto con una bomba posta in una Fiat 126, o Fiat Seicento, o Fiat Panda, comunque un’utilitaria, azionata a distanza con un telecomando.
Cala la sera, le caserme di polizia sono in rivolta, per il massacro cui sono stati mandati i loro colleghi. Il dirigente della squadra mobile Arnaldo La Barbera viene incaricato dal capo della polizia Vincenzo Parisi di coordinare le indagini. La famiglia di Paolo Borsellino rifiuta i funerali di stato. In via D’Amelio si continua a frugare, adesso con l’aiuto dei riflettori, ma non si trova nulla che suffraghi l’intuizione della polizia.
La mattina di lunedì alle otto, il signor Giuseppe Orofino solleva la saracinesca della sua carrozzeria in via Messina Marine, la lunga, popolare, sconquassata strada che costeggia il porto di Palermo e conduce a est verso il porticciolo di Ficarazzi.
Si accorge che è avvenuto un furto. Da una Fiat 126 lasciata per riparazioni dalla signora Anna Maria Sferrazza sono state asportate le targhe, il libretto di circolazione e l’assicurazione. Giuseppe Orofino si reca subito al commissariato di polizia a denunciare il furto. E con sua grande sorpresa, trasformatasi subito in timore, si trova trattato come un delinquente. L’officina viene perquisita, lui stesso intimidito.
I lavori sulla strada proseguono, ma senza metodo. Si trovano pezzi, si ramazzano detriti. Non si scattano fotografie. Sessanta sacchi neri dell’immondizia colmi di pezzi di ferro, cicche, oggetti vari vengono riempiti e dati in analisi nientemeno che all’Fbi. Nella giornata di lunedì una targa, la PA 878659, viene trovata sotto una carcassa bruciata. Verso le 13 viene rinvenuto, a molta distanza dall’esplosione, un intero blocco motore di un’utilitaria.
Tre giorni dopo, facendo l’inventario di tutte le macchine bruciate o danneggiate (le Fiat Cinquecento, 126, Panda e Seicento erano in tutto ventuno), quella targa e quel blocco motore (con l’aiuto dei tecnici della Fiat di Termini Imerese che risalgono al numero di telaio) diventeranno, per la polizia, parte di una stessa vettura: una Fiat 126 del 1985, rubata a Palermo alla signora Pietrina Valenti nella notte del 9 luglio.
Era come un fantasma, quella utilitaria. Aleggiava in via D’Amelio dove veniva parcheggiata senza destare sospetto, in un luogo che avrebbe dovuto essere vietato, ma non lo era; scoppiava al momento stabilito; si frantumava, è vero, ma si depositava anche in un blocco motore, si congiungeva a una targa, veniva amorevolmente ricomposta, trovava il suo proprietario, faceva immediatamente sospettare del carrozziere Orofino, e animava una nota anonima dei nostri servizi segreti.
Il 13 agosto quel fantasma, infatti, diventò protagonista di un appunto partito dal centro Sisde di Palermo (protocollo numero 2298/Z.3068, diretto a Roma). C’era scritto che da “contatti informali” si potevano prevedere imminenti sviluppi sugli autori del furto della macchina imbottita di tritolo e “sul luogo ove la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.
La terza scena è un grande affresco nello spazio, come avrebbe potuto essere una vastissima tela “vedutista”. Il “vedutismo”, secondo la concisa definizione di Wikipedia “è un genere pittorico che ha per soggetto vedute prospettiche di città o paesaggi, attenendosi alla realtà in modo scientifico tramite l’uso della camera ottica. Perfezionata nel Settecento, consiste in un sistema di lenti mobili che proiettano su un foglio l’immagine capovolta del soggetto. La camera ottica mutò totalmente il modo di dipingere del Settecento: le architetture divennero il principale soggetto delle opere artistiche, perdendo il loro ruolo di semplice fondale su cui si svolgevano le azioni dei personaggi principali. Il vedutismo si sviluppò soprattutto a Venezia per via della sua particolarità e suggestività; questo favorì lo sviluppo di una vera e propria scuola veneziana che tra i suoi maggiori esponenti vantava il Canaletto, Francesco Guardi e Bernardo Bellotto. Facevano parte del vedutismo i cosiddetti ‘capricci’, ovvero interventi di mescolanza e sostituzione di alcuni elementi da
un paesaggio all’altro”.
Se si potesse ora dipingere un affresco vedutista – compresi i suoi “capricci” – lo si potrebbe intitolare, a seconda delle intenzioni del pittore Veduta della città di Palermo dal Monte Pellegrino, oppure: Veduta di una nuova zona residenziale costruita negli anni sessanta nella città di Palermo; oppure Veduta del luogo della strage Borsellino, un attimo prima della medesima; oppure ancora Posizioni rispettive dello stato e della mafia sul terreno della via Mariano D’Amelio, alla vigilia della nota strage del 1992.
Se scegliamo un misto di tutte queste, e costruiamo noi stessi il nostro “capriccio vedutista”, ecco allora una vasta tela che mostra lo storico promontorio del Monte Pellegrino che sale ripidissimo dal mare per seicento metri, di grotte, anfratti e boschi, dividendo il grande golfo di Palermo da quello più piccolo di Mondello. Alle sue pendici comincia una parte nuova della città – nata ove un tempo c’era solo un vallone – e poi la Fiera del Mediterraneo, in un accatastamento di palazzi; il cemento, spesso di bassa qualità, è fornito dai grandi imprenditori edili mafiosi, che lasciano il loro segno sui palazzi di quel periodo, non solo nei brutti colori delle facciate, ma anche in una serie di piccoli dettagli: i punti di osservazione dei portieri (immancabilmente uomini di loro fiducia); l’esistenza di appartamenti riservati ad affittuari che non hanno voglia di essere visti, una serie di misure di sicurezza nei collegamenti tra garage, ascensori, scale interne, la cronica insufficienza di parcheggi. Sulla vetta del Monte Pellegrino, ecco invece una magnifica costruzione rosa, dalle forme sinuose, detta il Castel Utveggio, dal nome di un certo signor Utveggio che la costruì nel 1940 pensando di farne un albergo di lusso, ma dovette rinunciare al progetto per l’invasione alleata. Sotto si stende il nuovo quartiere che circonda la corta via senza uscita (chiusa da un resistente giardino di limoni) intitolata a Mariano D’Amelio. Di quest’ultimo si sa che fu un magistrato napoletano molto attivo durante il fascismo. Intorno ci sono strade intitolate ad Anwar El Sadat, presidente dell’Egitto, ucciso nel 1981; a Martin Luther King, campione dei diritti civili in America, assassinato nel 1968; a Isaac Rabin, primo ministro di Israele. E, dato che questi è stato assassinato nel 1995, la sua via deve essere il frutto di un’espansione territoriale. A chiudere il paesaggio, un grande palazzo nel 1992 ancora in costruzione, opera dell’impresa Graziano, tra i più importanti costruttori edili della Palermo ormai stabilmente mafiosa, a partire dagli anni ottanta.
Ecco, in via D’Amelio, le automobili parcheggiate a lisca di pesce e sulla mezzeria della carreggiata. Persone alla finestra, bambini che giocano nella strada.
La quarta scena è la stessa scena vedutista, cui è stato aggiunto il tempo. Prendete per esempio la Veduta della città di Delft di Jan Vermeer: tutto è immobile. L’acqua nel porto, le navi attraccate, la grossa nuvola nera che cambia la luce sui tetti della città, il dialogo delle due donne sul molo. Eppure si sente che, in mezzo a questo placido benessere, qualcosa sta avvenendo, Vermeer ha catturato, oltre alla luce, la premonizione, l’ansia.
La nostra grande tela vermeeriana allora vede una famigliola, padre, madre, figli, persino il cane, uscire da un appartamento al pianterreno del brutto palazzo giallo per andare a passare la domenica altrove; dopo che lo stesso capofamiglia ha bruscamente redarguito un gruppo di bambini che giocava in strada.
Ecco, di fronte all’ingresso del civico 19-21, nell’oscurità della notte precedente o alla luce incerta dell’alba, un’automobile che si sfila da un parcheggio, per far posto a un’altra, un’utilitaria di colore amaranto.
Ecco i padroni del palazzo in costruzione, i fratelli Graziano, che vengono a controllare i lavori, nonostante sia domenica.
Ecco un uomo con un piccolo telecomando che aspetta: è nel giardino dei limoni, no, è nel palazzo dei Graziano, no, è al parapetto del Castel Utveggio.
Ma guardate anche il mare, il mare antistante il porto di Palermo. Una barca da diporto, un gruppo di uomini che si gode la prima brezza della sera. La compagnia (anche se è troppo piccola per essere vista nel quadro) è davvero singolare. Il proprietario della barca, signor Giovanni Valentino, ha un grosso negozio di abiti da sposa ed è in buoni contatti con il noto mafioso Raffaele Ganci; il dottor Lorenzo Narracci è il fedele assistente del capo dei servizi segreti, Bruno Contrada, anche lui presente. (Abita ormai a Roma, ma è tornato a Palermo per le ferie.) C’è anche un capitano dei carabinieri. Alle ore 16.58 e venti secondi, mezza Palermo ha sentito il boato, ma non saprà per almeno mezz’ora che cosa è successo. Sulla barca ricevono una telefonata che parla di un attentato e il dottor Contrada ottiene conferma dal centro Sisde di Palermo che si è trattato di un attentato contro il giudice Borsellino, per cui decidono di tornare a riva, cambiarsi d’abito e andare a dare un’occhiata sul luogo dell’eccidio.
Lo scambio delle telefonate ha occupato appena il tempo di cento secondi. Certo, se il capo era in ferie in barca, al centro Sisde di Palermo erano sul pezzo. Nonostante fosse una domenica di luglio.
Poi, si sa com’è andata. Bruno Contrada, alla vigilia di Natale di quel 1992 viene arrestato con l’accusa di essere una spia di Cosa nostra, al servizio di Salvatore Riina. Lorenzo Narracci, quindici anni dopo, viene addirittura indagato per essere stato presente alla preparazione dell’autobomba con tritolo per uccidere Borsellino.
Ma a me, quella barchetta – quelle telefonate improvvise – ricordano piuttosto un piccolo racconto giallo dell’inizio del Novecento. L’autore era l’inglese G.K. Chesterton, il protagonista un piccolo e impacciato prete cattolico di nome padre Brown. (Antonio Gramsci, in galera, ebbe a scriverne molto interessato, come la risposta cattolica al protestantesimo di Sherlock Holmes.) Nel racconto, che si chiama L’occhio di Apollo, un certo sacerdote Kalon, guru di una setta, organizza l’uccisione di una sua segretaria, facendola precipitare nel vano di un ascensore. La morte della poveretta avviene mentre il predicatore parla dal balcone alla sua folla; si sente un urlo e tutti si voltano verso la sua origine; solo due persone rimangono ferme. Padre Brown, perché non ha capito quello che è successo, e Kalon perché ha capito.
La quinta scena, quella ottimista, in cui si vede quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
Basta cambiare solo di poco la precedente scena vedutista: ecco via D’Amelio con un’ampia zona in cui è vietato il parcheggio, davanti al civico 19-21. È un paesaggio tipico di Palermo di quegli anni; la casa, infatti, è un obiettivo sensibile, ci abita la madre del giudice Borsellino e il giudice viene spesso a trovarla. La sua scorta ha da tempo individuato quella zona come un punto ideale per commettere un attentato. E il giudice Paolo Borsellino, come tutti sanno, è il principale obiettivo di Cosa nostra.
L’acume, la professionalità e la dedizione degli agenti, il lavoro dei servizi segreti, la solidarietà popolare contro la mafia hanno permesso la recinzione di quel tratto di strada, e nessuno ha protestato troppo per i disagi nei parcheggi.
Così è stata protetta la vita del procuratore nazionale antimafia Paolo Borsellino, l’uomo che all’inizio degli anni novanta ha dato il colpo finale a Cosa nostra, arrestandone i capi e scoprendo i loro altolocati protettori, finalmente mettendo termine alla vergogna italiana e restituendo libertà e speranza ai palermitani e ai siciliani tutti.
***
Non andò così, lo sappiamo bene. Ecco una breve lista di quello che successe veramente in quei giorni d’estate del 1992.
 I funerali degli agenti di scorta a Borsellino, nella cattedrale arabo-normanna di Palermo, si trasformarono in un’inaudita colossale protesta dei bassi ranghi della polizia. Trasandati e con le barbe lunghe, centinaia di loro diedero l’assalto alle istituzioni con il grido “Via la mafia dallo stato”. Sul sagrato della cattedrale, a loro si unirono, altrettanto bellicose, altre migliaia di cittadini. Sotto le navate, il neoeletto presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, venne fisicamente aggredito dalla turba e fisicamente difeso, non da una scorta, ma solo dal giudice Giuseppe Ayala, alto e dinoccolato come un don Chisciotte, e dal capo della polizia Vincenzo Parisi, di complessione molto robusta, portatore di un clamoroso riporto di capelli bianchi.
 Fuori dalla cattedrale, gruppi di giovani dell’Msi (il partito politico che due mesi prima gli aveva addirittura fatto avere cinquantasette voti nelle elezioni a presidente della repubblica) avevano affisso manifesti e portavano striscioni con la scritta: “Meglio un giorno da Borsellino che una vita da Ciancimino”.
– Molti magistrati del palazzo di giustizia chiesero le dimissioni del procuratore capo Pietro Giammanco, che in effetti poco dopo uscì silenziosamente di scena.
 Una giovanissima siciliana, Rita Atria di Castelvetrano, che aveva sfidato la mafia nella sua famiglia confidandosi con il giudice Borsellino, si gettò dal settimo piano di un appartamento di Roma in cui era stata portata per proteggerla dalla vendetta mafiosa.
 Lo stato italiano, mai così fisicamente colpito in tutta la sua storia recente, reagì organizzando un ponte aereo che trasportò trecento detenuti mafiosi nelle desolate prigioni dell’Asinara e Pianosa, per essere ivi sottoposti al regime carcerario più duro che si potesse immaginare.
 A dieci giorni dalla strage sbarcarono in Sicilia i primi contingenti dell’esercito italiano per l’operazione “Vespri siciliani”. Destinati a occupare e proteggere gli obiettivi sensibili e a sollevare la polizia da questi compiti, rappresentavano un eccezionale impiego dell’esercito dentro i confini nazionali. La prova che era in corso di una guerra.


45 MINUTI. IL TEMPO DI RIVIVERE QUELLA PASSEGGIATA ALLA FAVORITA E DI RITOCCARE QUEL FREDDO E GELIDO METALLO DELLA BERETTA
- Buonasera Dottoressa.
- Buonasera carlomaria, si accomodi.
- Grazie.
- Sono puntuale?
- E' sempre puntuale. Ha bisogno di conferme?
- Credo di sì.
- Non si preoccupi, lo so bene. Le conferme deve imparare a darsele da solo perché ha più di un motivo per farlo. Io posso solo aiutarla a scoprire i motivi. A farli propri deve essere lei.
- E' una parola...
- Stia sereno ci arriviamo. Riprendiamo il discorso della volta scorsa quando mi descriveva i giorni prima del suo matrimonio a Palermo.
- Che dire... sono stato un cretino non pensavo che mio suocero se la prendesse in quel modo. Era già tutto pronto, avevamo scelto la Chiesa, erano stati spediti gli inviti di partecipazione, avevamo deciso dopo la funzione nella splendida parrocchia della Magione di trascorre un po' di tempo con i nostri amici più cari nel luogo più magico e suggestivo di Palermo, la Chiesa dello Spasimo. La conosce Dottoressa?
- No, ma se mi dice che è in luogo magico non posso non crederci...
- Le giuro che è indescrivibile!
- Mi racconti come è andata con suo suocero?
- Mancavano pochi giorni al matrimonio e un pomeriggio disse a sua moglie e a Dani che voleva fare due chiacchiere con me, "da uomo a uomo". Io guardai Dani con un'espressione un po' stupita, lei contraccambiò lo sguardo con la medesima espressione. Dopo pochi minuti eravamo in macchina in direzione della Favorita. Lui posteggiò, diede qualche spicciolo al posteggiatore abusivo e ci incamminammo nel Parco, verso la Palazzina Cinese. Non sapevo cosa voleva dirmi. Mi sembrava tutto perfetto. Ero sempre stato estremamente educato con loro. Forse lo sembrava a me e non a lui. Infatti dopo avere fatto pochi passi mi disse: "carlomaria, dalle nostre parti quando uno fa una fesseria sai cosa gli diciamo?". Gli risposi "Assolutamente no!". Vedevo che lui stava diventato rosso in volto, le guance già belle rotonde gli si stavano ingrandendo ulteriormente. All'improvviso da quelle labbra sottili, quasi invisibili, venne emessa quella sentenza con grande rabbia: "...gli diciamo che è un minchione! Un grande minchione!". Ebbene sì, in una frazione di secondo mi ero trasformato in un "grande minchione", senza conoscere il vero motivo. In quella nuova veste non mi ci trovavo assolutamente, quindi cercai di prendere la situazione in mano, nascosi il rammarico per l'offesa e gli domandai cos'era accaduto per finire da un momento all'altro nel girone dei minchioni. Le sue guance si gonfiarono ancora di più quasi fino a scoppiare, mi sarebbe bastato un filo da legargli al piede e me lo sarei portato per aria in giro per la Favorita per tutto il pomeriggio. Lui ancora più paonazzo mi fissò con uno sguardo truce negli occhi e mi disse: "Da noi, caro minchione, si usa chiedere al padre la mano della figlia!". "Cazzo" pensai "carlomaria hai toppato in pieno! Sei veramente un minchione. Non sei nel Lazio, nelle Marche, in Lombardia o in Liguria... sei in Sicilia, sei a Palermo, sei nel fulcro delle tradizioni, sei una testa di cazzo! Sei veramente un minchione anche se per te questa richiesta era data per scontata, visti tutti i preparativi che erano stati fatti proprio lì a Palermo. Hai fatto, come si dice dalle mie parti, la belinata più grande del mondo. E non ci sono scuse. Anche se consideravi la famiglia di Dani in qualche modo progressista e informale. Dovevo fare qualcosa per rimediare e al più presto!"
- Cosa fece?
- Agii d'istinto, puro istinto. Dovevo fermare quella mongolfiera che non riuscivo più a tenere nella mano e che il vento stava trasportando verso Mondello. Lo guardai negli occhi, dal mio sguardo trasparivano un milione di scuse. Lui non capiva e forse non avrebbe mai capito quale sarebbe stata la mia reazione. Mi fissava e si domandava come mi sarei scusato. Io non proferii verbo e mi lanciai verso di lui abbracciandolo più forte possibile per almeno un minuto. Sentivo che provava una sorta di imbarazzo ma al contempo sapevo che era l'unica via d'uscita. Più l'abbracciavo, più lo stringevo, quasi a fargli male. Poi lentamente mollai la presa, tenendo le sue braccia tra le mie mani. Avevo in un secondo sovvertito tutti canoni della tradizione siciliana, io mi ero impossessato di lui e non più lui di me. Quando finalmente i nostri occhi si incontrarono per più di dieci secondi lo guardai profondamente e gli dissi: "Scusami papà!". Colpito e affondato nel cuore. L'avevo investito della carica più ambita alla quale può aspirare un regnante. L'avevo benedetto e poi avevo posato sul suo capo la prestigiosa corona del padre. Iniziò a piangere, le lacrime gli bagnavano le lenti degli occhiali, le gote rubiconde, il collo della camicia. Fu costretto a prendere il fazzoletto dalla giacca e asciugarsi dappertutto. Ma non solo. Iniziò a prendere per un istante coscienza delle sue emozioni. Cosa rara per un uomo siciliano.
- Cosa avvenne subito dopo?
- Tornammo a casa senza dire un parola. Dani mi chiese com'era andata e di che cosa avevamo parlato. Le risposi sorridendo: "cose da uomini". Ma quell'uomo che dieci minuti prima mi aveva svelato la sua parte scoperta, le sue emozioni e la sua delicatezza volle riprendere subito la situazione in mano, per farmi capire che il mio modo di essere essere stato così minchione non se lo sarebbe mai dimenticato. Era nel corridoio e con voce seria mi chiamò: "Vieni un attimo carlomaria, voglio farti vedere una cosa". Io lo seguii fino in camera da letto. Lui aprì il suo comodino e in una frazione di secondo mi fece capire molto esplicitamente chi comandava. Dentro il comodino c'era una piccola Beretta nera, inserita in una fondina di cuoio scuro. Luì la sfilò dalla fondina, la impugnò con la mano destra e mi domandò: "Bella, no?". Gli risposi: "Molto, anche se non amo le armi!". Quindi me la mise in una mano, dicendomi: "Stai tranquillo è scarica". Il contatto con il freddo e gelido metallo della Beretta mi fece venire i brividi di paura su tutto il corpo. Era la prima volta in vita mia che toccavo una pistola e la sensazione non era affatto piacevole. Mi ricordavo quando da piccolo dovevo difendermi giocando con la mia pistola da cowboy dai miei amici o dai miei fratelli ma quella pistola non era affatto un giocattolo ed era caricata con mille messaggi, rivolti a me. Bastava interpretarli. All'improvviso arrivò nella stanza Dani che fece una sfuriata a suo padre (era ed è una donna bellissima, molto determinata e inflessibile). Suo padre mi sfilò subito dalle mani la pistola e la rimise immediatamente nel cassetto. Subito dopo arrivò anche la madre di Dani che rincarò la dose finché il marito non sparì in salotto. La forza delle donne siciliane ha dell'incredibile. Loro se vogliono possono assolutamente cambiare il corso della storia. Rimanemmo noi tre e loro mi spiegarono che quella pistola aveva radici lontane. Il padre la portava con se quando lavorava negli anni quaranta tra i Comuni di Lercara Friddi e Castronovo di Sicilia come addetto tecnico per l'edilizia. Bastava che lui decidesse di fare abbattere un semplice muro a secco che riceva della minacce. Era un lavoro che preoccupava molto la moglie che stava in ansia fino a sera quando lui non rimetteva i piedi in casa.
- carlomaria, quante volte in realtà avrebbe voluto avere una pistola?
- Bella domanda Dottoressa, tante e mai. Credo che parlare, tirare fuori quello che si ha dentro, vomitare il proprio dolore, piangere a dirotto sia come scaricare una pistola carica evitando di ferire qualcuno. Si, ha volte si avrebbe voglia di buttare via tutto il proprio passato ma oltre ad essere impossibile è un pura fantasia. E questo me lo ha insegnato lei. Si ricorda quando sono venuto qui la prima volta e con un rabbia infinità le ho detto che volevo sradicare via tutto e lei mi ha risposto: "Qui non si sradica via niente e non si taglia neppure una radice. Qui vediamo di mettere un po' d'ordine nel disordine".
- Me lo ricordo bene...
- Ho ancora dieci minuti?
- Ne ha tredici.
- Grazie. Volevo riflettere sull'articolo di Deaglio "Borsellino, il vile agguato e i 20 anni senza verità", avendo passato così tanti anni a Palermo e in Sicilia e trascorrendoci tutte le feste comandate forse qualcosa posso commentare.
- Dica?
- Dopo l'evento della pistola la situazione con mio suocero si tranquillizzò. Con Dani andavano spesso a Castronovo di Sicilia e capitava che suo padre raccontasse delle antiche storie legate a quella straordinaria terra. Una delle più curiose e che forse trasversalmente può lambire il concetto dell'essere "da 20 senza verità" è quella della campanella della Stazione dei Carabinieri. E' una storia che risale agli anni '50. La protagonista era una campanella in ferro che veniva mossa da un'asticella sempre in ferro, montata vicino alla porta della caserma. Allora, mi raccontava il padre, se c'erano delle questioni da dirimere come degli screzi tra i pastori per il passaggio del pascolo oppure dei litigi per l'utilizzo delle falde acquifere che servivano sia per irrigare i campi sia per dare da bere agli animali, si potevano scegliere due strade: o recarsi alla Caserma dei Carabinieri oppure andare da Don Totò. Se uno decideva per la seconda soluzione non doveva neppure lontanamente aver pensato alla Caserma e tanto meno tirato l'asticella di ferro della campanella. Don Totò non avrebbe mai ricevuto un pastore o una qualsiasi persona che prima si era recata a suonare all'Arma. Da quanto ho potuto intuire da questi racconti molti dei paesi che c'erano e forse ci sono tuttora sulla scorrimento veloce tra Palermo e Agrigento, avevano il loro Don Totò che assolveva in tutto e per tutto le funzioni della Caserma dei Carabinieri, pressoché vuota e disadorna. Il problema che si presentava a seguito del "trattato di pace" sancito da Don Totò era che colui che "vinceva" diventava automaticamente debitore con il mafioso. Questa persona poteva essere chiamata giorno e notte dai picciotti per sdebitarsi del favore ottenuto da Don Totò. Un favore che non aveva una scadenza e che sarebbe durato per tutta la vita. Questa sostituzione di uno stato nello Stato, visto il fulcro delle tradizioni che vige in Sicilia, visto lo strettissimo legame affettivo che vive in ogni famiglia siciliana, visto l'assoluto silenzio e omertà che sono palpabili all'interno dei loro nuclei familiari, mi ricorda molto il meccanismo dell'atto incestuoso, una manifestazione di uno scadimento del senso morale, un atto muto che avviene tra le quattro mura di casa, un fenomeno che come l'omertà è facilmente classificabile nelle rimozioni. Ma c'è qualcosa di più e riguarda la miseria e la povertà che sono condizioni favorevoli per coltivare "20 anni senza verità" all'interno dei certi strati sociali che mai e poi mai avranno il coraggio di svincolarsi tra di loro, alzando la testa e denunciando chi, da molto in alto. gioca torbidamente e consapevolmente con le loro vite".
- Potrebbe essere un piccolissimo spunto di riflessione carlomaria.
- Quanti minuti ho ancora?
- Tre.
- Il tempo per una poesia.
- Per chi carlomaria?
- Per Emanuela Loi. Era giovanissima, era di Sestu e mi permetto di correggere il mio adorato Enrico Deaglio: non era una donna ma un ragazza. Quando venni a sapere che tra la scorta c'era anche una ragazza, pur capendo benissimo che quella era la sua scelta di vita professionale, mi misi a piangere, come avvenne per Falcone, sua moglie, la sua scorta e per Borsellino e i suoi angeli custodi. C'è un altro motivo. Essendo nato in una città di mare a volte ho pensato quanto lei potesse amare il suo mare e questa è una delle poesie di mare più belle che io conosca.
- Dottoressa, sono noioso con queste poesie? Secondo me la poesia è tutto nella vita.
- No carlomaria. Se mai è molto affettuoso, me la legga.

Nessun commento:

Posta un commento