lunedì 2 luglio 2012

Axelle Lemaire ha detto no a Hollande che la voleva ministro: faccio politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la mia.



Quando François Hollande ha cercato dappertutto Axelle Lemaire per offrirle un ministero, e lei aveva il telefono spento, rotto, scarico, quando l’ha infine rintracciata a Canal Plus, ospite di una trasmissione a mostrare il nuovo e giovane volto della legislatura (Axelle Lemaire, neo deputata francese per i residenti all’estero, ha trentasette anni e la coda di cavallo, niente mascara, niente abiti da inaugurazioni di discoteche), pensava senz’altro di farla svenire di gioia e gratitudine: invece lei ha rifiutato, senza nemmeno chiedere mezz’ora per pensarci, ha detto che non è organizzata per vivere a Parigi e che ha i bambini piccoli, poi ha preso il treno per Londra, la metropolitana ed è tornata a casa dalla sua famiglia. Dai tre figli, dentro una vita piacevole e impegnata che non ha intenzione di cambiare né in nome della carriera, né del bene pubblico, né del potere alle donne. “Faccio politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la mia” è più di un bizzarro eroismo e non è quella che viene definita, in ogni saggio su donne e carriera, la grande rinuncia ai propri sogni in nome di un’impossibile conciliazione lavoro-famiglia, è il rifiuto delle regole degli uomini applicate al mondo intero, è la vita a modo nostro. Ed è la prova che si può avere tutto, ma con fantasia, rompendo le regole, facendo un po’ di casino là fuori, cose che non ci si aspetta, cose non da signora.
Come ha detto tanti anni fa Nora Ephron in un favoloso discorso alle laureate di Wellesley: “Qualunque cosa scegliate, e per quante strade percorrerete, io spero  che sceglierete di non essere delle signore”. Le signore dalla vita perfetta, che hanno avuto tutto. Questo tutto organizzato e ormai socialmente richiesto (carriera, figli, successo planetario, pubblica prova della grandezza femminile calcolata su parametri sempre maschili) non è sempre in cima alla lista delle voluttà, o almeno, spesso, non davanti all’immenso piacere di assistere al primo scoordinato tuffo in piscina del bambino senza braccioli, o al bisogno profondo di non bucare la cena a casa quando la figlia adolescente si sente la ragazza più infelice e rifiutata della terra, o al magnifico disordine di un lavoro fatto mentre si ascolta ventotto volte di fila, mimandolo: “Ci son due coccodrilli”. Non è solo eroismo femminile (che non è in discussione, è qualcosa che eccede il confronto con gli uomini, e non dipende dall’essere o non essere madri), non è la capacità che agli uomini parzialmente manca di sentire nel profondo le necessità degli altri e di impostare il cervello su più di una cosa alla volta (riunione, pediatra, saggio, malinconie, consegne, pranzo, carezze, dov’è finito il dannato libretto delle vaccinazioni, incontro alla Casa Bianca, riunione notturna, otite), è qualcosa di più profondo, che ha a che fare anche con il piacere. Davanti alla frase di Hillary Clinton, così emozionante, certo, così giusta e tempestiva, pronunciata a Rio de Janeiro, “Women must have the power”, le donne devono avere il potere, viene da pensare che non è da tutti rifiutare il potere allo stesso modo in cui si rifiuta un invito a una cena noiosa, rifiutarlo perché toglierebbe un pezzo di vita preziosa, perché quel pezzo di vita non tornerà mai più, perché la responsabilità personale, che è poi la cura delle persone che amiamo, diventa più urgente e più attraente del sogno di allargare il club di quelle che ce l’hanno fatta in modo molto visibile: Hillary Clinton, Condoleezza Rice (il primo segretario di Stato donna), Angela Merkel, Ségolène Royal che inseguiva le giornaliste per farsi intervistare in sala parto, e adesso i figli sono grandi e lei deve ingoiare sconfitte; moltissime donne hanno sognato in grande, hanno toccato il cielo anche per noi e a quel cielo hanno sacrificato grandi piaceri, pensando che ci sarebbe stato il tempo, poi, di godersi tutto (non riesco a togliermi dalla testa l’intervista di Alice Munro alla Paris Review, quando dice, parlando delle sue figlie: “Sento di avere fatto tutto al rovescio: ero una scrittrice completamente presa nel momento in cui loro erano piccole e avevano il più disperato bisogno di me. E oggi che non hanno più bisogno di me le amo profondamente. Vago per casa e penso: Una volta facevamo molte più cene in famiglia”). Tanta strada è stata fatta, le cose sono cambiate, la scelta è tutta intera davanti a noi, è molto difficile e incredibilmente esaltante allo stesso tempo, ma dev’essere la vita disordinata che vogliamo vivere, non la vita perfetta di un altro.
Sheryl Sandberg, giovane capo operativo di Facebook, con figli, braccio destro di Zuckerberg, ha spiegato in una Ted Conference, lamentando il sempre troppo piccolo numero di donne a capo del mondo, che quando le working women cominciano a pensare di avere figli “non alzano più la mano, non chiedono promozioni, non si fanno avanti, cominciano ad appoggiarsi allo schienale”. Ecco che, sotto forma di esortazione e incoraggiamento ad arrivare al cielo, cominciano i rimproveri, la sensazione che la forza dell’ambizione e la passione debbano superare ogni ostacolo (e la considerazione dei figli e della vita vera come un ostacolo). Il direttore donna di Vogue Inghilterra, la cinquantenne Alexandra Shulman, ha detto chiaramente in un’intervista che quando fai un figlio, anche se sei stata fantastica per tutta la gravidanza (fantastica significa che sei stata seduta alla scrivania anche di notte a scrivere le didascalie o hai preso tre aerei al giorno nascondendo la pancia all’ottavo mese), “questa scelta danneggia la tua traiettoria professionale: sei praticamente fuori da tutto per due o tre anni, e questo fa la differenza, non si può fingere che non la faccia”. E’ stata sincera e colpevolizzante al tempo stesso (e lei ha un figlio adolescente che da piccolo si augurava la morte di quel dannato magazine e adesso si augura che la mamma abbia riunioni di redazionedi ventiquattr’ore e si chiude in camera con le cuffie). Non si può fingere che un bambino non faccia la differenza, ma non si deve nemmeno fingere di non avere figli (qualcuna ha perfino nascosto gravidanze sotto abiti enormi e chiacchiere sulle diete: poi, come si racconta nel libro di Chiara Valentini, “O i figli o il avoro”, è stata licenziata quando ha chiesto di mettere il piccolo di due anni al nido aziendale, perché non aveva preso il congedo obbligatorio di maternità – appunto per non essere licenziata), non si può vivere, fuori, come se non ci fosse qualcuno, a casa, con bisogni primari, più primari di un rimpasto di governo, della quotazione di Facebook in Borsa, della crisi dell’euro, di una conferenza internazionale sui diritti delle donne, di un bellissimo sogno di gloria. Qual è la strada, qual è la cosa giusta?
“Perché le donne non possono ancora avere tutto” è il titolo di un saggio di smodata lunghezza pubblicato sull’Atlantic (il più letto nella storia dell’autorevole rivista politica e culturale di Boston) da Anne-Marie Slaughter, la prima donna, dal 2009 al 2011, ad avere l’incarico di Director of Policy Planning del dipartimento di stato americano, a Washington, guidato da Hillary Clinton. Dopo due anni in cui ha realizzato quello che credeva intensamente essere il sogno della sua vita, è tornata a casa piena di desiderio di stare con i suoi figli adolescenti. Bisogna precisare una cosa importante: Anne-Marie Slaughter non è stata costretta al passo indietro dall’ingiustizia biologica, sociale e culturale di essere madre e dalla società maschilista, anche se la società maschilista, intesa come necessità di inventare, per un ritardo, scuse legate al dannato traffico invece di  dire la verità, cioè che il bambino stava vomitando dappertutto, esiste e regna (ma ogni volta che una donna non guida il mondo si ritiene che abbia rinunciato a causa del freno imposto dai figli, e i figli diventano, come nella visione della filosofa Elizabeth Badinter, una pesante catena alla caviglia che impedisce di spiccare il volo e anzi mira a chiuderle in cucina, gocciolanti latte, a preparare marmellate biologiche): lei ha lasciato che vincesse il desiderio più grande, occuparsi di due teenager maschi, perché mentre discuteva con i capi di stato pensava ai loro brufoli, alle loro porte sbattute, al loro iPod rotto. Ha a che fare con la responsabilità e le crisi isteriche, ma anche con un immenso piacere e con l’imprevedibilità dell’esistenza. La Slaughter usa proprio la parola “desire”, che non è: costrizione, non significa nemmeno: come sarebbe bello non doversi occupare delle partite di baseball e delle interrogazioni. Anne-Marie Slaughter non aveva problemi di baby sitter, ha un marito disponibile e dedicato ai figli, in grado di prendere appuntamenti dal dentista e distinguere un costume da bagno da un paio di mutande, capace di intuire amori non ricambiati e bisogno impellente di McDonald’s, ma lei non voleva perdersi quelle cose, voleva essere lì, in mezzo a macchie di ketchup e rabbie adolescenziali, ben più che a Washington a governare il mondo. Non è diventata una casalinga, è una docente universitaria che scrive articoli di politica estera, tiene cinquanta discorsi all’anno, parla in tivù e alla radio, sta scrivendo un libro, ma le reazioni alla sua scelta sono state di due tipi soltanto. “Che peccato che hai lasciato Washington”, oppure: “Io invece non ho mai dovuto fare compromessi, e i miei figli sono cresciuti benissimo”.
In quel momento la sua gloriosa parte femminista ha avuto un fremito di rabbia: non è questa la strada. Insegnare alle nuove generazioni, alle ventenni, che si può avere tutto va bene, ma non bisogna lasciarle crescere dentro una mezza verità o un delirio di onnipotenza un po’ fatuo e pericoloso, che le farà sentire fallite se non andranno più veloci degli uomini nel lavoro, con una famiglia iper organizzata, una casa in ordine, il frigo pieno, la faccia liscia di una ventinovenne. Salvare il mondo, dopo aver preparato la cena, non è esattamente il messaggio che ci serve. Crescere pensando che il dovere sociale sia il cielo farà sentire molto deluse (e darà agli altri il diritto di scuotere la testa) quelle che faranno un passo indietro a metà strada, o arriveranno al cielo con i capelli in disordine e un figlio pieno di piercing che entra in casa e dice: hey, bitch. Nessuno riesce a fare tutto. Mrs Moneypenny, columnist del Financial Times (è Heather McGregor, cacciatrice di teste, docente alla London Business School, madre di tre figli), scrive: “Adoro l’ambizione e, come sappiamo, la sicurezza è cruciale per una donna, ma spesso mi sembra che queste qualità siano presenti nelle ragazze più giovani senza realismo. E’ importante rendersi conto di com’è la vita vera”. Forse ha ragione, ma nemmeno questa è la strada. Il realismo si conquista sul campo, la programmazione viene dopo, prima ci dev’essere l’entusiasmo della lotta.
Pensare che ce la faremo, ad avere la vita che ci piace.
Dare per scontato che valorizzeremo le persone che amiamo quanto il successo che cerchiamo, e chiedere, pretendere che lo facciano anche gli altri e quindi combattere banali battaglie ogni giorno, come scrive Anne-Marie Slaughter, “nei posti di lavoro, nelle legislature, nei media”. Quali sono le banali battaglie? Le piccole cose: l’ufficio non è un accampamento in cui passare le notti, ma una base di lavoro, e essere in grado di lavorare da casa o dalla cima di un monte o dal bagno di un asilo nido è un valore in più; i viaggi di lavoro fanno schifo, se si hanno bambini molto piccoli, ma qualche volta sono una vacanza; dire in ufficio che si va a casa a preparare la cena invece di: ho l’allenamento per la maratona, ho il corso per il brevetto aereo, ho un combattimento di cani, ho un ritiro sul monte Athos, non diminuisce l’autorevolezza. La gravitas, appunto. Scrive Anne-Marie Slaughter: quando divenne decano alla Princeton’s Woodrow Wilson School of Public and International Affairs (per sette anni), Slaughter parlava liberamente dei suoi due bambini, spiegava che dalle sei alle otto di sera voleva essere a casa per loro, che poteva tornare dopo le otto per un meeting, eccetera. Dopo un paio di mesi vari professori andarono nel suo ufficio, molto agitati: “Devi smetterla di parlare dei tuoi figli, non è questa la gravitas che ci si aspetta da un decano, poi proprio da te che sei la prima donna decano”. Lei rispose che lo faceva apposta e che avrebbe continuato, ma è interessante che l’avere figli (cosa che coinvolge anche gli uomini e che viene continuamente e elettoralmente sventolata come di vitale importanza in tutte le società civili e incivili) non vada d’accordo con la gravitas, come se equivalesse a dire: tra le sei e le otto faccio la donna cannone al circo, la domenica non mettete riunioni perché mi trucco da clown e mi rotolo prima nella colla e poi nelle piume di piccione.
Bisogna parlare di più, spiegare, non fingere di essere qualcun altro, Erode per esempio, non accettare di perdere pezzi di sé nella strada per il cielo. Accettare invece che il nostro sé cambia continuamente, che un giorno sei pronta a tuffarti nuda nel Tevere a gennaio per una carriera, e quindici anni dopo sospiri pensando alle violette che stanno per spuntare in giardino. E smettere di chiederci se possiamo avere tutto. Possiamo, certo, e secondo la Slaughter questa verità sarà sancita il giorno in cui ci sarà una donna alla Casa Bianca (cosa che avverrà prima, dice, di aver cambiato le condizioni di lavoro delle donne ai negozi Walmart). Ma la cosa più importante è, di nuovo, quello che disse Nora Ephron nel 1996 alle ragazze di Wellesley: “Siate le eroine della vostra vita, non le vittime”. L’unica cosa da sapere prima (al posto delle programmazioni esistenziali) è che non saremo sempre le stesse, perché il sé fisso e immutabile non esiste. A vent’anni Nora Ephron avrebbe potuto scrivere cinque cose di sé in una lista: ambiziosa, laureata a Wellesley, democratica, figlia. Dieci anni dopo nessuna di quelle cinque cose era di nuovo sulla sua lista: giornalista, femminista, di New York, divorziata, divertente. E il giorno del discorso alle laureate era ancora tutto cambiato: scrittrice, regista, madre, sorella, felice. Le cose essenziali della vostra lista di oggi non saranno le stesse della vostra lista di domani, almeno non le più importanti. Il caos è la risposta. Abbracciamo il caos. “Niente sarà come avevate pensato che sarebbe stato, ma le sorprese non sono male. E non abbiate paura: si può sempre cambiare idea”

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