Nome in codice "Poli 59". Era la scorta aerea di Giovanni Falcone. Bastava vederlo piombare a bassa quota, con il muso che scrutava Palermo dall’alto e le pale che scuotevano l’aria immobile di una primavera già torrida. Il 23 maggio 1992 a proteggere dall’alto il nemico numero uno di Cosa nostra il "Poli 59" non c’era.
Non fu una sfortunata coincidenza. «L’elicottero che, per disposizione del Ministero degli Interni, avevamo l’autorizzazione di far alzare in volo ogni qualvolta ne avessimo avuto bisogno; era a nostra disposizione». Fino a quando, rivela a 21 anni dai fatti l’agente Luciano Tirindelli, che faceva parte della scorta del giudice, non si mise di traverso l’allora capo della squadra mobile, Arnaldo la Barbera, di cui ricorda «i rapporti difficili». Se gli chiedevano di adeguare le dotazioni, sostiene il poliziotto, «avevamo sempre un diniego». Dalle armi alla sostituzione delle autoblindo.
In che modo il velivolo della Polizia avrebbe potuto evitare che Giovanni Brusca premesse il radiocomando che ha attivato mezza tonnellata di tritolo nei pressi di Capaci? «Se ci fosse stato, l’elicottero, oltre a consentire una visuale completa del territorio, sarebbe stato soprattutto un deterrente». Tirindelli è scampato alla strage per un cambio turno. Oltre a Falcone, morirono la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Al periodico veneto "Il Piave", il cinquantenne Tirindelli ha consegnato una testimonianza finora inedita. «Non ne sapevamo nulla», conferma una fonte della procura di Caltanissetta. Ai magistrati che hanno riaperto le indagini sulle stragi di Capaci e Via d’Amelio (dove fu assassinato il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti), la storia del "Poli 59" suona del tutto nuova. Perciò i pm coordinati dal procuratore capo Sergio Lari stanno studiando il contenuto delle dichiarazioni dell’agente e valuteranno già in queste ore quale tipo di approfondimenti svolgere.
Perché ci abbia messo due decenni a raccontare la faccenda dell’elicottero negato, Tirindelli dovrà probabilmente spiegarlo agli inquirenti. Di certo i dubbi «non mi danno pace».
Il "Poli 59" entrava in azione «con il rumore assordante delle pale. Faceva veramente paura – ricorda il poliziotto –, perché visto da lontano l’elicottero è una cosa, ma quanto ce l’hai sopra la testa è spaventoso». Forse questo avrebbe potuto far cambiare i piani a Cosa nostra. Il successo dell’attentatuni lungo l’autostrada era vincolato ad alcune modalità: l’esplosivo andava attivato con un radiocomando da uomini che avrebbero dovuto sostare su una collina, perciò a rischio di venire intercettati dall’alto.
«Cercavamo di far capire a La Barbera che la scorta del dottor Falcone non era come le altre e necessitava di dotazioni adeguate e particolari, uniche come il personaggio scortato. Ma – afferma Tirindelli – ricevevamo sempre una risposta negativa, anche infastidita. Una situazione spiacevole».
br> La Barbera, deceduto nel 2002, non può difendersi da questa come da altre accuse che recentemente gli sono state mosse, allungando sulla carriera di superpoliziotto altre ombre, dopo i fatti del G8 di Genova e le controverse modalità con cui furono condotte le indagini successive alle stragi di mafia.
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«Qualche volta noi abbiamo tentato di parlare con Falcone, di spiegare che avevamo le nostre esigenze di macchine, radio, anche di addestramento e Giovanni – riferisce Tirindelli – ci faceva capire che lui non voleva intromettersi. Non voleva essere quello che alzava il telefono ed imponeva a La Barbera qualcosa».
Fonte: Avvenire
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