lunedì 14 gennaio 2013

Renzi "visto"da Pansa


di Giampaolo Pansa
Credeva di essere furbo il fiorentino Matteo Renzi, ma poi ha scoperto di avere  contro due volponi piacentini. Uno è notissimo: Pier Luigi Bersani, il segretario del Partito democratico, nonché possibile presidente del Consiglio di un ipotetico governo di sinistra, destinato a sbaraccare tutto il lavoro fatto dall’esecutivo dei tecnici guidato da Mario Monti. L’altro volpone è ancora sconosciuto ai media, però molto presto anche su di lui si accenderanno le luci della ribalta. 
 Sto parlando di Maurizio Migliavacca, anni 61, nato a Fiorenzuola d’Arda, un politico coriaceo, cresciuto come Bersani nel vecchio Pci. Un partito totalitario e senza riguardi per nessuno, ma in grado di sfornare quadri pronti a tutte le emergenze. 
Lo dimostra anche la carriera del Migliavacca, oggi coordinatore della segretaria democratica. Inizi da funzionario del Partitone rosso non ancora fatto svoltare da Achille Occhetto. Assessore nel proprio comune. Presidente della provincia di Piacenza dal 1990 al 1994. Deputato nel 1996 e da allora sempre in Parlamento. Una volta eletto segretario del Pd, Bersani se l’è portato nella stanza dei bottoni. E gli ha affidato l’incarico più rognoso: occuparsi di tutte le grane che emergono tra i democratici e risolverle senza preoccuparsi di rompere le gambe a Tizio o a Caio. 
Dimostrando di avere il pugno di ferro, Migliavacca, un politico cinico e silenzioso, è diventato il numero due della parrocchia democratica. Dopo Bersani è lui a contare. Lo si è capito nella battaglia delle primarie di coalizione. Senza di lui e il suo allievo Nico Stumpo, responsabile dell’organizzazione, il compagno Pier Luigi non avrebbe potuto correre sul velluto. E forse il povero Renzi sarebbe stato meno povero di oggi. 
Perché ritengo povero il sindaco di Firenze? Qualcuno potrebbe osservarmi che non è per niente così. Le primarie ne hanno fatto un leader, con un seguito robusto, il 40 per cento degli elettori di quella gara. Tutto vero fino all’altro ieri. Assai meno vero oggi, quando abbiamo sotto gli occhi la disfatta di Renzi nella battaglia per mandare in Parlamento gli uomini che nelle primarie l’avevano aiutato, sostenuto, allenato, affiancato giorno dopo giorno nel viaggio sfibrante sul camper. 
I media stampati sanno essere ben più implacabili di quelli televisivi. Le cronache, le interviste, i titoli rimangono negli archivi e non evaporano nel nulla dopo un telegiornale o un talk show in prima serata. E la rassegna stampa sul Renzi post primarie è micidiale. Gira tutta su una constatazione sola: il capolavoro del rottamatore è stato quello di rottamarsi da solo. 
Lo prova il caso di Roberto Reggi, 52 anni, ingegnere elettrotecnico, già sindaco di centrosinistra a Piacenza, il comandante della campagna di Renzi nelle primarie. Chi l’ha visto all’opera come sindaco dopo aver strappato Piacenza al centrodestra, lo descrive come un dirigente politico-amministrativo molto autoritario, un tipo che va diritto all’obiettivo senza guardare in faccia a nessuno. L’uomo giusto per impedire che Renzi fosse sopraffatto dalle truppe corazzate di Bersani. 
Poi è arrivato il momento fatale di comporre le liste per il voto del 24 febbraio. I due volponi piacentini si sono vendicati di Reggi e gli hanno negato la candidatura. Per il Migliavacca ci sarà stata anche il gusto di una vendetta tra ex compagni di merenda cresciuti nella stesso piccolo centro. Anche Reggi è di Fiorenzuola d’Arda. E soltanto chi ha vissuto in provincia sa quanto possano essere velenose le sfide tra vicini di casa che fanno lo stesso mestiere. 
Ma il Reggi non è l’unico big renzista a essere stato escluso dalle liste del Pd. È rimasto fuori dal listino blindato Lino Paganelli, il manager di tutte le feste democratiche, punito per essersi schierato con Renzi. Lasciato a bagnomaria Giorgio Gori, uno degli strateghi della campagna di Matteo, candidato a Bergamo senza molte speranze di vittoria. Niente seggio per due giuristi come Stefano Ceccanti e Francesco Clementi. Niente per Giuliano da Empoli, gemello di Matteo. 
Oggi il sindaco di Firenze strilla che alla Camera saranno una cinquantina i deputati che fanno capo a lui. Però è inevitabile proporsi una domanda banale: lui, ossia Renzi, chi è in questo inizio del 2013, mentre sta già infuriando uno scontro elettorale destinato a cambiare faccia all’Italia? Posso sbagliarmi, però non mi pare che sia più il leader di una svolta liberal del Pd. In grado di suscitare le speranze di centinaia di migliaia di possibili elettori che volevano un cambio di politica e anche di politici nella parrocchia democratica. 
Posso dirlo senza le tristezze del reduce poiché non sono andato ai seggi delle primarie. Ma conosco tantissimi volontari del renzismo che hanno sostenuto e difeso Matteo contro l’apparato del Pd. Il sindaco di Firenze veniva accusato di essere una quinta colonna di Berlusconi, un destrone, un distruttore, un fascista in abito simulato, un nemico del partito. Questi volontari sono stati degli eroi. E adesso si accorgono che il giovin signore in maniche di camicia non era un mastino, ma soltanto un cane di paglia. 
Non è obbligatorio tentare di fare il leader. Tuttavia se decidi di presentarti in quel ruolo, devi poi onorare gli impegni che sottoscrivi. Renzi si è arreso a Bersani e ha tradito i suoi elettori con un’intervista a «Repubblica» dell’8 gennaio che verrà ricordata a suo disdoro. Tutta contro Mario Monti, definito «un demagogo». Un brutto passo falso che però conteneva un involontario autoritratto del sindaco di Firenze, 
Renzi diceva di Monti: «La credibilità è il valore più importante di un politico. È come la reputazione di un brand, di un marchio: ci si mette anni a conquistarla, ci vuole un minuto a perderla». L’inconscio ha portato Matteo a descrivere se stesso. Il suo brand non esiste più. Adesso il sindaco di Firenze si ritrova a ballare nudo nell’harem della ditta Bersani & Migliavacca.
Una volta gettato nel cestino il proprio marchio, Renzi è stato rimesso sull’altare da chi l’aveva sempre sputacchiato. Vogliamo rammentare un caso clamoroso di revisionismo benefico? Ce lo ricorda l’inversione di giudizio compiuta da Eugenio Scalfari. Con la disinvoltura che è una delle sue risorse geniali, Barbapapà dapprima aveva spedito Matteo all’inferno, poi l’ha condotto in paradiso. 
Nel novembre 2011, dopo i primi passi di Renzi da contestatore, Scalfari lo dipinse così: «Considero Renzi un personaggio irrilevante, se non addirittura dannoso, per un necessario riassetto della politica italiana». Secondo Barbapapà, Matteo ricordava Bettino Craxi. Anche il leader socialista aveva cacciato dal Psi i dinosauri, ma con esiti fatali per la politica socialista. Lo stesso avrebbe fatto il sindaco di Firenze, avviato a fondare «un berlusconismo purificato», accompagnato da «una trasformazione antropologica dei democratici». La prova di questo reato stava sotto gli occhi di tutti: la simpatia di Giuliano Ferrara per Renzi, «un fatto inquietante», così lo giudicava Scalfari. 


Il fondatore di «Repubblica» continuò a ripetere l’anatema durante la campagna delle primarie. Soltanto adesso, dopo che Renzi si è inginocchiato davanti a Bersani, il giudizio di Scalfari si è fatto benevolo. Tanto da confessare che Matteo gli è quasi simpatico. In fondo ballare nudo nell’harem di Bersani qualche vantaggio lo porta. Ma se fossi al posto del sindaco di Firenze toccherei ferro nel ricevere il bacio di Barbapapà. 

Nessun commento:

Posta un commento