LES PRODUCTIONS DU TRÉSOR
presentano
ROMAIN DURIS DÉBORAH FRANÇOIS
TUTTI
PAZZI PER ROSE
Un film di
RÉGIS ROINSARD
con
BÉRÉNICE BEJO
SHAUN BENSON
MÉLANIE BERNIER NICOLAS BEDOS
MIOU-MIOU EDDY MITCHELL FRÉDÉRIC PIERROT
prodotto da ALAIN ATTAL
Uscita 30 maggio
Durata 111 minuti
Sinossi
Primavera 1958. Rose
Pamphyle ha 21 anni e vive con suo padre, un burbero vedovo titolare dell'emporio
di un piccolo villaggio in Normandia. Rose è promessa in sposa al figlio del proprietario
dell'autofficina e l'attende un destino di casalinga docile e devota.
Ma Rose non vuole saperne
di una vita del genere. Così decide di partire per Lisieux, dove il
trentaseienne Louis Echard, carismatico titolare di un'agenzia di
assicurazioni, sta cercando una segretaria. Il colloquio per l'assunzione è un
fiasco totale. Ma Rose ha un dono: batte i tasti della macchina per scrivere a
una velocità vertiginosa e così riesce suo malgrado a risvegliare l'ambizioso
sportivo che sonnecchia in Louis... Se vuole ottenere il posto, Rose dovrà
partecipare a delle gare di velocità dattilografica. Ignorando i sacrifici che
la giovane dovrà compiere per raggiungere l'obiettivo, Louis si improvvisa
allenatore e decreta che farà di Rose la dattilografa più veloce di Francia, e
perfino del mondo! E l'amore per la competizione sportiva non va
necessariamente d'accordo con l'amore puro e semplice…
Intervista
con Régis Roinsard
TUTTI PAZZI
PER ROSE è il suo primo lungometraggio. Quale percorso l'ha portata alla regia?
Ho sempre avuto voglia di raccontare storie attraverso
le immagini e quando ero al liceo avevo iniziato a fotografare le persone che i
miei compagni consideravano strane. A onor del vero, credo di aver fatto
anch'io parte di quella categoria, visto che passavo tutto il mio tempo a
registrare i film che venivano trasmessi in televisione per poterli esaminare
in dettaglio in un secondo momento. Poi ho studiato cinema e in seguito mi sono
cimentato in tutti i mestieri cinematografici: macchinista, scenografo, fonico,
ecc. Volevo confrontarmi con la realtà tecnica della costruzione di un film.
Nel giro di breve tempo, ho girato il mio primo lungometraggio, a cui ne sono
seguiti altri tre e mentre lavoravo al terzo ho iniziato a realizzare spot
pubblicitari, videoclip e documentari musicali per artisti quali Jean-Louis
Murat, Jane Birkin e Luke. Ho fatto completamente miei tutti questi lavori su
commissione, ma nel frattempo ho continuato a coltivare l'idea di passare al
lungometraggio. Penso che il motivo per cui ho impiegato tanto per riuscirci è
stato che volevo a tutti i costi innamorarmi di una storia.
Come le è
venuta l'idea di rievocare le gare di dattilografia in un'opera di finzione?
Nel 2004, mi è capitato di
vedere un documentario sulla storia della macchina per scrivere che comprendeva
una piccolissima sequenza sui campionati di velocità dattilografica: quei brevi
trenta secondi mi hanno talmente affascinato che ho subito percepito le
potenzialità cinematografiche e drammaturgiche di quel tema e quindi ho cominciato
subito a delineare la trama. L'universo della dattilografia mi sembrava folle:
trovavo incredibile che fosse potuto diventare uno sport ed ero incantato dal
rapporto uomo/macchina. All'inizio avevo soltanto la giovane campionessa e il personaggio
maschile non esisteva. Ma avevo già immaginato che lei venisse da un villaggio
e le avevo dato il nome di una delle mie nonne. C'è da dire che, esattamente
come Rose, anch'io vengo da una piccola città della Normandia e che Parigi, per
me, rappresentava la metropoli inaccessibile.
A partire da
questo spunto, come si è documentato?
Ho cominciato a indagare sulla «disciplina sportiva»
di velocità dattilografica e sulle scuole che insegnavano stenografia e
dattilografia. Era il 2004 ed è stato un lavoro complicato, perché in quegli
anni tutte le scuole stavano scomparendo e non era stato conservato quasi
nessun documento d'archivio. Su Internet ho trovato qualche breve video delle
gare di velocità dattilografica. Tra i documenti più interessanti, ho scoperto
una fotografia di un campionato americano che si svolgeva in una sala simile a
un velodromo davanti a migliaia di spettatori. Ho anche scovato le pubblicità
della Japy, l'azienda francese che fabbricava macchine per scrivere e
organizzava gare di velocità dattilografica, che elencano i campionati
regionali. Inoltre, ho incontrato ex campioni e campionesse di velocità che mi
hanno raccontato la pressione mentale che subivano e le strategie di
destabilizzazione degli avversari attraverso lo sguardo, confortandomi
nell'idea che fosse un vero e proprio sport. Ma in quella fase, non sapevo
assolutamente se il film avrebbe preso la strada del dramma o della commedia.
E a quel punto
si è lanciato nella scrittura?
Sì, con l'idea di adottare un registro che fosse
squisitamente mio. Ho iniziato scrivendo un trattamento di una trentina di
pagine, in cui ho creato i personaggi che gravitano attorno a Rose, e con
Daniel Presley, un amico produttore musicale grande fan delle commedie
americane degli anni '50, abbiamo inventato i personaggi di Bob e Marie. Di
conseguenza, abbiamo deciso di scrivere la sceneggiatura a quattro mani. Daniel
è estremamente esigente e ha un umorismo alla Woody Allen: avevamo pensato di
scrivere i dialoghi in inglese, di cui io avrei in seguito proposto un
adattamento in francese, in modo da realizzare una alchimia perfetta tra
commedia americana e «French touch»! Ho anche apprezzato molto il fatto che
Daniel mi facesse osservazioni pertinenti sulla musicalità e il ritmo dei
dialoghi. Alla fine della prima stesura, eravamo soddisfatti solo al 60%, nello
specifico perché avevamo l'impressione che l'evoluzione psicologica di Rose
fosse troppo semplicistica. Casualmente avevo letto alcune sceneggiature del
ventiseienne Romain Compingt, un fan di Britney Spears e Marilyn Monroe, e per
qualche strano motivo percepivo in lui una sensibilità particolare che avrebbe
potuto dare corpo alla psicologia di Rose. Mi sono quindi rivolto a Romain e,
tre settimane dopo, ci ha restituito una versione della sceneggiatura che ci ha
soddisfatto all'85%! Con lui, la storia d'amore è diventata più audace. Ci
siamo rimessi al lavoro tutti e tre insieme, chiedendoci se potesse funzionare
una collaborazione tra un giovane fan di star decadute, un musicista americano
e me, cosa tutt'altro che scontata!
In quale fase
Alain Attal è entrato a far parte del progetto?
È stato il primo a leggerlo: gli abbiamo dato la
sceneggiatura un venerdì e il martedì seguente ci ha detto che voleva fare il
film! Ci siamo incontrati e ci siamo subito resi conto che la mia visione del
film corrispondeva alla sua. La cosa straordinaria è che Alain si pone lui
stesso come un «allenatore»: mette i registi in condizione di dare il meglio di
sé. Alain è il mio Louis Echard! È anche una persona animata da un'autentica
follia e dalle sue ossessioni artistiche: mi ha messo costantemente con le
spalle al muro, incoraggiandomi ad avere dei dubbi e questa è una dialettica
che amo molto. Inoltre, è un grandissimo cinefilo e condividiamo gusti e riferimenti
visivi, quindi ci siamo a lungo confrontati su cineasti come Nicholas Ray o
Godard, che lui conosce come le sue tasche, o sui film a colori di Joseph
Losey.
Il progetto è
partito anche dal desiderio di rievocare la fine degli anni '50?
C'era anche questo, anche se non volevo in alcun modo
fare un film che rendesse omaggio a quell'epoca. In realtà, sono affascinato
dagli anni '50 sul piano estetico, musicale, letterario e cinematografico. Prova
ne è che amo molto film recenti ambientati in quel periodo, come PLEASANTVILLE
o PEGGY SUE SI È SPOSATA, e volevo che la messa in scena e il montaggio si
inscrivessero nella modernità.
Cosa le piace
tanto degli anni '50?
Sono caratterizzati da un
rapporto spazio-temporale molto particolare che segna sia l'esordio della
società dei consumi per gli adolescenti, con la nascita del rock’n roll e
l'evoluzione dei codici di abbigliamento, sia i primi passi
dell'intrattenimento e delle sponsorizzazioni negli eventi sportivi. È anche il
periodo dei "Trente Glorieuses", il trentennio successivo alla
Seconda Guerra Mondiale durante il quale la disoccupazione quasi non esisteva e
l'avvenire sembrava roseo, malgrado la situazione mondiale fosse più cupa di
quanto non la si volesse vedere. Gli anni '50 sono stati un decennio strano in
cui la gente, che usciva dal conflitto mondiale, preferiva non affrontare gli
eventi drammatici che si verificavano nel mondo, cosa che è stata costretta a
fare solo a partire dal decennio seguente.
È anche un
decennio che ha segnato una svolta sul piano sociologico e culturale.
Sì, perché gli anni 1958-59 precedono immediatamente
l'inizio dell'emancipazione femminile. Due o tre anni dopo, le gonne si sono
accorciate e le donne si sono posizionate in modo diverso nel mondo del lavoro.
Mi piace molto quest'epoca perché costituisce un momento cardine che annuncia i
successivi anni '60. E questo vale anche dal punto di vista della moda: per
esempio, i modelli simbolo di Ray-Ban li portiamo ancora oggi. E poi l'ossessione
per la velocità è nata in quel periodo: i record di velocità in automobile si
moltiplicavano e si sono costruiti i primi aerei supersonici. La ricerca della
velocità, che caratterizza tanto gli anni '50, mi colpisce molto,
considerando che siamo tutt'ora in questa fase di ricerca sfrenata ai giorni
nostri.
Qual era il
suo obiettivo per quanto riguarda lo stile visivo del film?
Abbiamo lavorato alla
direzione artistica in modo periferico: volevamo ricreare gli anni '50
mescolando l'aspetto documentario, il cinema dell'epoca che amo, in particolare
i film americani, e l'immagine fantastica che ha la gente di quel periodo.
Tutto quello che riguarda i protagonisti trae ispirazione dal cinema e dalla
fantasia, attingendo ai codici di cineasti quali Billy Wilder e Douglas Sirk, e
più ci si allontana dalla cerchia dei personaggi principali, più ci si avvicina
a una visione documentaria. Per esempio, i ruoli secondari e le comparse sono
ancorati in una visione realistica poiché abbiamo voluto che avessero profili e
fisionomie tipici dell'epoca.
E i colori?
Abbiamo esaminato molte pubblicità americane e
francesi degli anni '50 e visionato quasi tutti i film a colori girati in
quell'epoca in Francia. Non è stato facile, perché in quel periodo in Francia
si girava ancora prevalentemente in bianco e nero e i rari film a colori erano
essi stessi film d'epoca realizzati in studio! IL PALLONCINO ROSSO o ZAZIE NEL
METRO' sono stati per noi fonte d'ispirazione, ma abbiamo un po' barato, perché
abbiamo visto anche i film a colori della Nouvelle Vague, come LA DONNA È DONNA
di Godard.
Ha avuto altri
riferimenti oltre a quelli cinematografici?
Come riferimento abbiamo preso anche l'insieme delle
opere di un illustratore, Alex Steinweiss, che in quegli anni ha ideato un
discreto numero di copertine di dischi. Nel suo lavoro c'è tutta la gamma
cromatica, sia nei vestiti, sia negli ambienti, che abbiamo utilizzato per la
totalità del film. Ho anche fornito al reparto scenografie una serie di
riferimenti di designer e stilisti dell'epoca: volevo che il film esprimesse la
mia visione estetica degli anni '50.
L'aspetto più difficile era far credere agli
spettatori che gli esterni siano quelli degli anni '50. Per questo motivo,
abbiamo consultato immagini d'archivio a colori per aderire alle tonalità
insature di quel periodo. E ci siamo resi conto che, per esempio, le automobili
erano sempre monocromatiche perché in quell'epoca le vernici delle carrozzerie
non erano ancora industriali o erano appannaggio di una clientela agiata.
Abbiamo quindi optato per un'insaturazione dei colori, mantenendo le dominanti
di rosso, verde e blu perché volevo che l'occhio fosse incessantemente
sollecitato.
A tratti il
film ci fa pensare a Jacques Demy. È stato anche lui un regista di riferimento
sul piano visivo per lei?
Assolutamente! Adoro le storie che in apparenza sono
rosa, ma che nella sostanza non lo sono più di tanto. È probabile che sia
questo aspetto ad avvicinare TUTTI PAZZI PER ROSE a una fiaba. E nel cinema di
Demy, bisogna saper cogliere l'ironia tra le righe, anche quando a volte i film
hanno un happy end. Demy utilizza la magia e l’illusione per far scivolare un
messaggio più profondo di quanto non sembri. Tra i suoi film, quello che amo di
più è LA FAVOLOSA STORIA DI PELLE D'ASINO, malgrado anche LES PARAPLUIES DE
CHERBOURG sia stato per me una fonte d'ispirazione.
Detto questo, per me TUTTI PAZZI PER ROSE è anche un
film di cappa e spada! La sequenza finale si ispira a SCARAMOUCHE di George
Sydney: quando Louis sbarca a New York, siamo quasi in una situazione da duello
cavalleresco o da combattimento tra gladiatori.
Come mai nel
film c'è una strizzata d'occhio a LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE?
All'inizio non era deliberata: i colori dominanti
rosso e blu mi vengono da LA VENERE IN VISONE di Daniel Mann, dove una coppia adultera
si reca in un motel. Poi abbiamo guardato LA DONNA È DONNA che comprende una
scena anch'essa giocata nei rossi e blu. Quindi mi sono ispirato alla visione
fantastica di Hitchcock che è stata assimilata da altri registi. Io stesso ne
sono impregnato visto che, quando ho visto Déborah François uscire dal bagno,
ho avuto l’impressione di veder apparire Kim Novak. Per la musica, abbiamo
fatto ascoltare la partitura di LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE al mio compositore
che non è più riuscito ad allontanarsene.
Come ha
sviluppato i personaggi?
All'inizio, quando ho scritto il ruolo di Rose, l'ho
fatto pensando a tutte le donne che negli anni '50 volevano emanciparsi e in
particolare a mia madre: faceva l'agricoltrice con i suoi genitori e a un certo
punto li ha lasciati per andare a lavorare in una città più grande. Lì ha
incontrato mio padre, che dirigeva una compagnia d'assicurazione e aveva nei
confronti delle persone un modo di fare più simile a quello di un medico di
campagna che a quello di un assicuratore di oggi. Svolgeva un ruolo di
catalizzatore con i suoi clienti e anche, per certi versi, con mia madre che ha
aiutato a smarcarsi e a liberarsi. Quando sono nato io, mia madre ha fatto la
stessa cosa con mio padre: nel momento in cui è andato in pensione, si è
comportata con lui come una «allenatrice». Mi piace molto questo rapporto di
mutua assistenza tra gli esseri umani. In TUTTI PAZZI PER ROSE, Rose è aiutata
da Louis che ha la velleità di farle da allenatore fino a quando,
progressivamente, i rapporti si invertono. Ho pensato di trovare un equilibrio
in questo genere di legame tra individui che, a turno, si stimolano gli uni con
gli altri. Del resto, continuavo a ripetere alla mia troupe: «Siete al tempo
stesso allenatori e atleti». Ho sempre avuto una passione per lo sport e ho
sempre amato la figura dell'allenatore.
Ci parli della
scelta degli attori...
Volevo riunire un cast dove ogni attore avrebbe
apportato la propria unicità, come un direttore d’orchestra che sceglie dei
musicisti che si rispondono e si accordano reciprocamente. Un po' alla maniera
di Tim Burton che mescola attori celebri ad attori di profilo più basso e ad
attori teatrali. Nella selezione del cast non ho fatto alcuna concessione
perché era essenziale che tutti i personaggi fossero pienamente incarnati. Per
questo motivo gli attori che ho scelto provengono da orizzonti diversi. Romain
Duris si è imposto subito poiché sono impressionato dal suo senso del ritmo e
della commedia. Si è impegnato moltissimo per incarnare il personaggio: ha
chiesto che venissero riscritte alcune parti della sceneggiatura per
approfondire il ruolo e ha svolto lui stesso una ricerca sul contesto del film,
arrivando a incontrare un allenatore di calcio per farsi spiegare in cosa
consiste il suo mestiere. Romain è sempre alla ricerca di qualcosa e a un certo
momento ne sapeva più lui di noi del personaggio. Quello che mi piace in lui è
il fatto che, come Louis, mantiene su di sé un alone di mistero. Non parla
molto di se stesso e questo tipo di atteggiamento è stimolante per me e
affascinante per i suoi partner.
E per Rose
Pamphyle?
All'inizio, con Alain Attal, ci eravamo detti che
avremmo preso un'attrice sconosciuta al grande pubblico, ma poi, al momento di
selezionare il cast, abbiamo deciso di non porci dei limiti. Abbiamo provinato
circa 150 attrici professioniste e principianti, e Déborah si è imposta con
evidenza a tutti noi. Mescola un'autentica fragilità e una distrazione
commovente che può evolvere verso un certo non so che di affascinante: possiede
esattamente quello che cercavamo per Rose, una ragazza che viene dalla campagna
e diventa una star. E quando Déborah ha fatto i primi provini, sono rimasto
folgorato nel vedere che arrossiva veramente! Era Rose Pamphyle! Dovevamo poter
incollare la foto di Rose Pamphyle accanto a quelle delle star dell'epoca senza
che questo creasse uno shock, in modo tale che diventasse una nuova musa
ispiratrice. Volevo «tremare» vedendo Rose Pamphyle. Quello che mi piace in
Déborah, è il suo lato molto indipendente e il suo carattere ben temprato.
Peraltro, ci siamo completamente trovati nelle sfide che POPULAIRE ha posto ad
entrambi: nel percorso di ciascuno dei due, è la prima volta che abbiamo la
possibilità di lavorare su un grosso film su cui abbiamo puntato una posta
molto alta.
Come l'ha
diretta?
A volte con lei sono stato una specie di «Louis
Echard», soprattutto negli allenamenti che le ho imposto perché acquisisse la
velocità dattilografica. Poi Romain, che nel film incarna il suo «allenatore», ha
naturalmente preso il mio posto: è persino andato a Liegi per vederla allenarsi
a battere la tastiera con dieci dita. Per prepararsi a interpretare il ruolo,
ho chiesto a Déborah di guardare le commedie di Billy Wilder, interpretate da
Audrey Hepburn e Shirley MacLaine, ma volevo che andasse anche verso Marilyn
Monroe. Le ho fornito diverse iconografie dell'epoca per farle comprendere le
posture delle donne negli anni '50, dal modo di baciare a quello di stare
sedute su un divano, di alzarsi, ecc. Déborah non è mai nel mimetismo: assimila
tutto il materiale che le viene fornito e lo rielabora, staccandosi
completamente dal modello originale. Solo la sua pettinatura, con la coda di
cavallo, è un riferimento diretto ad Audrey Hepburn: motivo per cui, abbiamo
attaccato un poster della star su una parete della sua camera.
Come le è
venuta l'idea di affidare il ruolo di Marie a Bérénice Béjo?
In realtà l'ho scoperta grazie a THE ARTIST, dove mi
ha particolarmente toccato nella scena in cui si impossessa del cappotto di
Jean Dujardin nel suo camerino: ho capito tutta la sensibilità di cui doveva
dar prova per interpretarla in modo efficace. Ero anche alla ricerca di una
bellezza indiscutibile, quella che tutti abbiamo ammirato al liceo nelle
ragazze più carine, e di un'attrice in grado di rendere credibile una storia
d'amore con Romain, tra il personaggio interpretato da lui e la sua fidanzata
ideale. Anche se Louis è completamente perso per Rose e paralizzato da lei, e
malgrado Marie sia sposata con Bob, Louis e Marie sono indissolubilmente legati
uno all'altra. Sapevo che Bérénice sarebbe stata in grado di interpretare una
madre casalinga soddisfatta del suo ruolo, che tuttavia non si lascia ingannare
dalla posizione delle donne nella società dell'epoca. Quando abbiamo fatto una
prima lettura con Bérénice e Romain, lui era a bocca aperta: percepiva in lei
sia il lato materno e rassicurante sia il lato anticonformista e sexy. Come testimonia
il suo taglio di capelli di media lunghezza, è una donna moderna: è già
proiettata negli anni '60.
Perché ha reso
americano l'amico di Louis Echard?
Negli anni '50, i francesi
fantasticavano sugli Stati Uniti. Attraverso un personaggio americano, volevo
che si potesse dare corpo al passaggio dalla società dei consumi alla società
dell'intrattenimento che in Francia iniziò a verificarsi in quel periodo. Inoltre,
grazie al personaggio di Bob, e a Shaun Benson che lo interpreta, ho potuto
sottolineare l'aspetto di commedia musicale del film, visto che mi fa pensare a
Gene Kelly.
Come ha scelto
le musiche preesistenti?
Innanzitutto non mi sono fissato in modo inderogabile
sull'anno in cui si svolge la storia: ho preferito lasciarmi un margine di
circa tre anni prima e tre anni dopo il 1958. Per quanto riguarda la musica
americana, adoro la musica lounge e il jazz varietà di musicisti come Les
Baxter o Martin Denny, e sono anche un appassionato di tutti quei compositori
degli anni '50 che hanno scritto per Sinatra e altri crooner. Volevo utilizzare
quel genere di musica, ma anche le canzoni francesi dell'epoca. Nella Francia
del dopoguerra dominavano cantanti come Montand, Ferré, Brassens e Piaf e
quindi non trovavo l'equivalente del jazz varietà americano. Poi ho scoperto
artisti misconosciuti come Jack Ary, che dirigeva un'orchestra di cha-cha-cha e
mambo. Ha pubblicato una ventina di 45 giri ed è così che ho scovato «il cha-cha-cha
della segretaria».
E le musiche
originali?
Mi sono reso conto che ne
avevo bisogno perché le musiche preesistenti non mi bastavano. Mi sono rivolto
a Rob, che lavora con la band Phoenix e che è molto forte sul fronte melodico,
e a Emmanuel d’Orlando, e insieme hanno composto dei brani che apportano al
film un grande impatto emotivo. Mi ero sempre detto che era necessario andare
verso il melodramma! Per la registrazione, mi sono ispirato ai metodi degli
anni '50-'60, in
particolare per il posizionamento dei microfoni. Abbiamo inciso in Francia con
musicisti che abitualmente suonano opere liriche e che sono stati entusiasti di
assaporare la musica pop guardando le immagini del film. Tutto sommato, la
colonna sonora si avvicina a una commedia musicale e sono felice di questo
poiché, se ci sono due cineasti che adoro per il loro senso del ritmo e delle
tonalità, sono Stanley Donen e Bob Fosse.
Intervista
con Romain Duris
Come è
approdato a questo progetto?
Per merito di Régis ovviamente! So che ha subito detto
ad Alain Attal, il produttore del film, che avrebbe adorato affidarmi il ruolo
di Louis Echard, il titolare di una piccola agenzia di assicurazioni in Normandia.
È avvenuto tutto molto in fretta: hanno contattato il mio agente David Vatinet
e mi hanno inviato la sceneggiatura. Poi ci siamo incontrati.
Che cosa l'ha
sedotta nella sceneggiatura?
Quando l'ho ricevuta, ero completamente immerso in «La
notte poco prima della foresta», la pièce che ha messo in scena Patrice
Chéreau. Nell'ultimo anno avevo rifiutato tutte le proposte che avevo ricevuto
perché nessuna mi aveva entusiasmato. Leggendo il copione ho subito colto
l'originalità della storia che Régis aveva immaginato: una giovane segretaria
che diventa campionessa del mondo di velocità dattilografica. Mi piaceva anche
l'idea di ritrovarmi a interpretare un personaggio che appartiene alla
generazione di mio nonno e l'aspetto singolare e misterioso che lo caratterizza.
Fino a quando non incontra Rose, Louis è sempre arrivato secondo nella sua
esistenza, sia nella sua vita personale sia in quella professionale, visto che
sulla carta il suo mestiere non è tra i più cavallereschi. Ed ecco che,
all'improvviso, viene colto da passione per questa segretaria che vuole
trasformare in una campionessa. Diventa un allenatore come in ROCKY! Trovo il
percorso di questo personaggio estremamente toccante, persino nel suo modo di
annullarsi di fronte a questa giovane donna per catapultarla ai vertici. Mi è
sembrato evidente che sarebbe stato appassionante interpretare questo Louis
Echard. E l'incontro con Régis non ha fatto altro che rafforzare il mio
desiderio di incarnarlo. Ascoltandolo parlare con entusiasmo e precisione della
sua sceneggiatura e vedendolo anche disponibile all'ascolto e quindi pronto al
dialogo, mi sono definitivamente convinto.
Come ha
lavorato per costruire il personaggio?
Innanzitutto Régis mi ha
mostrato alcuni giornali dell'epoca con delle fotografie a cui si era ispirato
per creare l'universo del suo film. Ma mi ha anche chiesto di rivedere vari
film di Douglas Sirk, Howard Hawks, Billy Wilder e anche UN AMORE SPLENDIDO di
Leo McCarey. Tutto questo mi ha aiutato a familiarizzare con il tono delle
voci, la postura e il modo di muoversi di quegli anni. Ma sia Régis sia io
abbiamo sempre tenuto presente che quei riferimenti erano americani, mentre TUTTI
PAZZI PER ROSE s’iscrive a pieno titolo in una certa cultura francese. Per
questo motivo, ho anche guardato in parallelo alcuni film francesi degli anni
1958-1959 nei quali si può inserire la storia di POPULAIRE: PECCATORI IN BLUE
JEANS di Marcel Carné, I CUGINI e LE BEAU SERGE di Claude Chabrol... Questi
film mi hanno permesso di vedere in dettaglio i codici dei giovani di
quell'epoca, sia nel modo di vestire, sia nelle tecniche per rimorchiare le
ragazze, e anche le differenze tra i comportamenti dei giovani parigini e
quelli dei giovani di provincia. Tutti questi elementi mi hanno fornito una
base ideale su cui costruire Louis.
Come
definirebbe Louis?
È un assicuratore modesto a cui le persone affidano il
loro denaro. È l'opposto di un truffatore: è una persona che ispira
un'immediata fiducia al primo incontro, un uomo gentile, ma per niente scaltro.
Ed è probabilmente per questa ragione che qualche anno prima si è lasciato
sfuggire Marie (Bérénice Bejo), la donna che amava: è totalmente incapace di
promettere più di quanto sia in grado di mantenere al momento. Ma Louis è anche
un uomo con il complesso di essere l'eterno secondo, sia nello sport, sia agli
occhi di suo padre, sia nel cuore di Marie. Non è un eroe: è un uomo con una
frustrazione interiore che trasferisce tutta la sua ambizione su Rose, che
vuole trasformare in una campionessa.
Secondo lei,
perché si dedica tanto a Rose?
È affascinato dalla sua sfacciataggine e dalla sua
ambizione. Quando Rose vuole una cosa finisce sempre per ottenerla, in un modo
o nell'altro. Louis intuisce quasi subito le potenzialità di Rose di diventare
una campionessa. Lei accende qualcosa in lui, ma lui impedisce a se stesso di
innamorarsi di lei. Poi, passando del tempo con lei, allenandola, pian piano si
rende conto che lei sta realizzando una cosa che avrebbe potuto fare lui e si
proietta in lei. Facendo questo percorso con Rose, arriva a compiere una scelta
con Marie e a concedersi di amare di nuovo. Ma per riuscire a farlo deve anche
guarire dalla sofferenza di essere un eterno secondo. Per certi aspetti, Rose è
un balsamo per tutti i dolori vissuti, anche se gli ci vorrà del tempo per
ammetterlo.
Diventare
allenatore sullo schermo le ha richiesto una preparazione particolare?
Insieme a Régis, sono
andato a incontrare Régis Brouard, che allora era l'allenatore della squadra di
calcio di Quevilly. Aveva già fatto l'exploit di portare la «piccola» squadra
di divisione National fino alle semifinali della Coppa di Francia. E da allora
ci è ricascato, riuscendo ad arrivare alle finali. Ho quindi potuto osservare
in dettaglio come dialoga con la sua squadra, le parole che sceglie di
sottolineare negli spogliatoi, le sue azioni giorno per giorno. Di fatto, è
tutta una questione di autorità: bisogna sapere in quale momento si può essere
freddi con le persone che si stanno allenando per esaltare la loro motivazione
e fino a dove si può arrivare senza spezzare la fiducia in se stessi o come
creare uno spirito di emulazione senza schiacciare nessuno. È una meccanica di
precisione affascinante da osservare.
Spesso si dice
che l'abito fa il personaggio. È stato così anche per lei quando ha indossato i
costumi di Louis?
Sì, perché anche il lavoro della costumista Charlotte
David è stato di una precisione rara! Charlotte non è una neofita, è famosa per
aver creato i costumi dei due film OSS 117. Avevo piena fiducia in lei e non
sono rimasto deluso. Tutti i costumi sono stati realizzati su misura con una
scrupolosa attenzione per ogni minimo dettaglio. I costumi sono un elemento
fondamentale prima di iniziare le riprese di un film. E io ho avuto occasione
di provarli molto prima di andare sul set, quindi ho subito sentito come i vari
completi si disegnavano sul mio corpo. Due mesi prima del primo ciak, ero già
fisicamente immerso nel personaggio.
Avete provato
prima delle riprese?
Abbiamo fatto una semplice lettura con tutti gli
attori. Ma prima avevo fatto numerosi provini con Déborah. La selezione delle
attrici per trovare l'interprete di Rose è stata in effetti piuttosto lunga e
laboriosa. Ma a ogni nuovo giro di audizioni, Déborah tornava! È stata
magnifica nel prestarsi al gioco e quei momenti mi sono anche stati enormemente
utili, poiché mi hanno permesso di approfondire la conoscenza del mio
personaggio e anche di vedere come Régis dirige gli attori.
Può dire che è
stato un personaggio che ha trovato abbastanza rapidamente?
Nel giro di breve tempo mi
sono fatto un'idea della sua postura e del suo modo di comportarsi. Ma ho
impiegato molto di più a delineare la sua interiorità, poiché, per tutta la
durata del film, Louis non deve sembrare né apertamente simpatico né totalmente
antipatico, ma deve rivelarsi piano piano, senza forzature nell'atteggiamento.
Mi sono lasciato guidare da un sentimento: il pudore. Ma, anche in questo caso,
era tutta una questione di giusta misura. Premendo troppo sul pudore nel
manifestare i sentimenti, avevo paura di impedire agli spettatori di arrivare a
provare delle emozioni.
Come è stata
la sua collaborazione con Déborah François?
È stata una delizia! Déborah è un'attrice abbastanza
tecnica, nel senso positivo del termine. Per questo motivo è stato molto facile
sviluppare le scene insieme. Non ha il minimo blocco. È stato estremamente
piacevole sentire che tra noi si creava una complicità in modo del tutto
naturale.
E cosa l'ha
sedotta in Régis Roinsard come regista?
Régis concede molta libertà, ma appena sente che ti
stai allontanando troppo, è in grado di intervenire nel momento adatto per
riportarti sui binari giusti senza spezzarti le ali. Ricordo, per esempio, le
riprese della scena in cui il mio personaggio guarda i campionati di
dattilografia e vive quei momenti in uno stato di sovreccitazione totale. A me
è capitato di calcare troppo la mano e ogni volta Régis sapeva come avvicinarmi
e spiegarmi in modo molto chiaro come fare per restare nella linea più virile e
più concentrata del personaggio e invitarmi a non dimenticare che per Louis
quei momenti sono solenni ed essenziali. Régis sa guardare gli attori. Ma ho
anche capito molto in fretta quanto il film gli stesse a cuore. Viene dalla
provincia, come i personaggi di POPULAIRE. E il tema del riconoscimento, che è
centrale in questa pellicola, gli è molto caro, senza contare il fatto che suo
nonno è stato un membro attivo della Resistenza come il mio personaggio. Del
resto, Régis si identificava molto in Louis e posso assicurarvi che per un
attore è molto bello vedere un regista con le lacrime agli occhi quando
l'interprete recita determinate scene. È molto gratificante. Régis ha un cuore
e un'anima e non esita a mettere il proprio intimo in quello che racconta.
Infine, possiede anche un talento essenziale: è perfettamente capace di
circondarsi delle persone giuste, a cominciare da Alain Attal, un grande
produttore pieno di entusiasmo che sa che affinché un film esista e trovi la
sua dimensione piena bisogna investire non pochi soldi in alcune settori chiave
e anche in tutti i capi settore, la costumista, il direttore della fotografia
Guillaume Schiffman, il responsabile del suono... Ho notato che tutti, senza
eccezione, sono rimasti toccati dall'amore che Régis aveva per il suo film, dal
rispetto che nutre per le persone e dal desiderio che aveva di condurre la sua
barca in un porto sicuro insieme ad ogni collaboratore.
Nel film c'è
una scena memorabile che rivela molto del suo personaggio. È la scena della
cena di Natale quando Rose incontra in modo inatteso la sua famiglia. Un
momento di grande commedia sullo schermo. È stata altrettanto esilarante da
interpretare?
Sinceramente non è stato
molto complicato vestire i panni di un figlio che ha problemi di comunicazione
con il proprio padre! Sono rari coloro che non hanno mai vissuto una situazione
del genere. Per il resto, poiché quella scena era scritta in modo magistrale,
il mio unico timore era che Eddy Mitchell apparisse troppo cool! Ritenevo
essenziale che si sentisse d'acchito la sua autorità paterna su Louis,
l'autorità di quella generazione che oggi ai nostri occhi appare piuttosto brutale
e davvero molto lontana da quello che Eddy emana spontaneamente! Ma i miei
dubbi sono svaniti al primo ciak. Eddy è stato perfettamente capace di mostrare
una facciata rude che gli conosciamo poco. E bisogna aspettare il benestare del
suo personaggio alla fine della scena perché tutti possano tirare un respiro di
sollievo e Rose sia accettata nella famiglia. Nell'attesa di quel momento tutti
restano con il fiato sospeso.
Cosa ha
trovato più difficile in tutta questa avventura?
Temevo il momento in cui il mio personaggio decide di
lasciare che Rose spicchi il volo da sola prima della finale di New York. L'istante
in cui, mentre raggiunge i suoi obiettivi (Rose è campionessa di Francia e lo
ama), decide di partire. Bisognava fare molta attenzione per evitare che il
pubblico abbandonasse Louis in quel momento. Si trattava non tanto di spiegare
ogni cosa, quanto di trovare la giusta misura affinché quell'istante fosse al
tempo stesso misterioso e commovente. Già non era facile integrare i problemi
del mio personaggio in una commedia molto ritmata e guidata dai passi «sportivi»
di una campionessa in cui si innesta una storia d'amore. In più, al contrario,
se non lo calcavo abbastanza certi aspetti, rischiavo sia di spezzare la
dinamica dell'insieme corale sia di impedire ogni forma di empatia nei
confronti di Louis. Ma credo che ci siamo riusciti senza indebolire la colonna
vertebrale del film, ovvero il percorso di Rose.
Il film
ultimato è molto vicino all'immagine che si era fatto?
È ancora più bello! Era
impossibile rendersi conto della precisione della luce di Guillaume Schiffman guardando
lo schermo del monitor sul set. Régis è riuscito a realizzare un film ben
recitato, molto efficace ed estremamente sottile. E soprattutto un vero film
personale e non «alla maniera di».
Intervista
con Déborah
François
Cosa le è
piaciuto di Rose Pamphyle, il suo personaggio?
Un ruolo così è un regalo per una attrice! Fin dalla
prima lettura ho subito colto le sue potenzialità e la sua sincerità e mi ha
enormemente toccata. C'è in lei una sensibilità, una voglia di ridere, una
rabbia e tutta una gamma di emozioni straordinarie da interpretare. È per
questo che tante attrici si sono presentate ai provini. Io ci tenevo così tanto
ad ottenere questa parte che mi sono accanita come una pazza! Quando ho
incontrato Régis per la prima volta, mi sono presentata dicendogli: «Salve,
Rose Pamphyle, con la «y»». Lui si è messo a ridere!
Come l’ha convinto?
Con Régis ci siamo trovati molto in sintonia, perché Rose
emoziona entrambi e assomiglia a tutti e due per diversi aspetti. Penso che
quando mi ha incontrata abbia capito che per me la sfida sarebbe stata simile
alla sua e che abbia colto nel mio sguardo un messaggio che diceva «Scegli me».
Per convincerlo, ho recitato la scena del primo incontro con Louis: me la
ricorderò per sempre perché l'avevo provata un numero incalcolabile di volte!
Ma alla fine, la mia visione del personaggio era abbastanza vicina
all'interpretazione che poi ne ho dato nel film.
Aveva sentito
parlare delle gare di dattilografia?
Assolutamente no.
All'inizio ho addirittura pensato che fossero un'invenzione di Régis e quindi
non ho cercato di approfondire. Quando mi ha detto che quelle gare erano
realmente esistite, mi ha inondata di documenti! Ricordo in particolare un vero
e proprio campionato di dattilografia che era stato filmato, un documento raro
e impressionante. Mi ha anche dato dei manuali su vari metodi dattilografici e
per cambiare i fogli e un video di una segretaria della Marina americana che
mostra come effettuare un cambio di foglio in tre movimenti alla velocità della
luce! Inoltre, ho guardato una serie di documentari sui giovani di quegli anni,
dei ritagli di giornali e un numero enorme di illustrazioni. E ho rivisto
numerosi film interpretati da Audrey Hepburn, a cui ci siamo un po' ispirati
per il personaggio di Rose, come SABRINA, ARIANNA, CENERENTOLA A PARIGI e MY
FAIR LADY.
Si è allenata
molto in dattilografia?
Nella fase di preparazione, mi ci sono dedicata da due
a tre ore al giorno per tre mesi e poi anche durante le riprese, ma non tutti i
giorni. Quando dovevo girare una scena in cui battevo a macchina, la sera prima
non mi allenavo perché avevo paura di farmi male. All'inizio, peraltro, per
poco non mi faccio venire un'epicondilite, perché non è una postura naturale e
i tasti della macchina per scrivere sono difficili da schiacciare. È una
gestualità abbastanza particolare da imparare. Il dover utilizzare il mignolo
era ancora più complicato per me che non avevo l'abitudine di battere sulla
tastiera con tutte e dieci le dita. E ogni volta che facevo un errore di
battuta, dovevo ricominciare daccapo.
Possiamo dire
che l'epoca in cui è ambientato il film segna l'inizio dell'emancipazione
femminile?
Sì ed è proprio questo che incarnano i due personaggi
femminili: Rose, che viene dalla provincia, ha uno stile molto anni '50, mentre
Marie, che abita in città e dispone di più mezzi economici, ha uno stile inizio
anni '60, con le sue fasce nei capelli, i suoi gilet e i suoi pantaloni corti. È
difficile distinguere quanto dipende dai vincoli della cultura dell'epoca e
quanto è attribuibile alle scelte personali delle donne.
Come possiamo
caratterizzare il suo personaggio?
È una femminista che ignora di esserlo. La cosa che mi
faceva un po' paura nel fatto che il film sia radicato negli anni '50 è che
all'inizio Rose potesse sembrare sottomessa. Ma in realtà è una combattente, è
determinata, è un'autentica «Rocky» al femminile, senza esserne consapevole. Però
è maldestra e non ha fiducia in se stessa. Ma si rivela molto più forte di Louis.
In realtà, ci rendiamo conto che è lui ad avere una vera lacerazione, molto più
di Rose. Per questo i ruoli piano piano si invertono, grazie alla loro
relazione amorosa. Ed è questo che è magnifico.
Per un attimo
sembra che il successo le dia alla testa...
Avevamo voglia di fare
oscillare il personaggio per spingere il pubblico a preoccuparsi un po' e a
dire «Ma è impazzita? Non è la Rose che abbiamo visto finora!». Quindi abbiamo
girato due o tre scene in cui in effetti non è più se stessa. Nella sequenza
con Nicolas Bedos, per esempio, è una ragazza diversa: volevo quasi che ci
fosse un errore di recitazione perché si capisse che c'è uno scarto rispetto al
resto del film e che poi lei ritorna con i piedi per terra. Ci tenevamo a
mostrare anche le sue debolezze.
Che cosa piace a Rose di Louis Echard?
La sua aura. Lo considera un bel ragazzo ed è
incantata dalla sua educazione e dal suo status sociale. Penso anche che si
lasci impressionare dal fatto che è il suo capo, anche se si schermisce. In
fondo, Rose è una grande romantica, una fan di Audrey Hepburn e Marilyn Monroe,
e il suo lato romantico la spinge a infatuarsi di Louis Echard perché ha voglia
di una grande storia d'amore con un bell'uomo, un po' più grande di lei che
porta bene la giacca e la cravatta. In più, lo trova commovente: quando scopre
che è meno sicuro di lui di quanto si possa credere, si scioglie. Del resto è proprio
in quel momento che si innamora di lui. Mi piace molto l'idea che si
invaghiscano uno dell'altra in più riprese: prima tra loro c'è il colpo di
fulmine, poi Louis si ricrede, sino al ribaltamento finale.
Per amore, non
esita a prendere le difese di Louis davanti a suo padre...
È tipico di Rose questo! Di fatto in quella scena si
comporta come fa con Louis. È più forte di lei: non è semplicemente capace di
stare zitta. Inoltre, ha bevuto un po' ed è la prima volta in vita sua che è
brilla. E, più che altro, credo che l'atteggiamento del padre di Louis la
indigni profondamente: attraverso la sua irritazione, non solo lancia un
messaggio al suo innamorato, ma esprime anche quello che vorrebbe dire al suo
stesso padre.
Come è stato
il suo rapporto di lavoro con Romain Duris?
È stato un vero piacere
recitare con lui. Ad ogni ripresa riuscivamo ad esprimere qualcosa di nuovo e
di intrigante. È un attore che si pone delle domande, che è in costante ricerca
ed è molto esigente. Abbiamo sentito un'alchimia tra i nostri due personaggi e
ci siamo passati bene la palla. E, come è naturale, quando uno dei due variava
leggermente la sua recitazione, costringeva l'altro a cambiare. C'era un vero e
proprio spirito di emulazione tra noi.
Régis Roinsard
è molto esigente con i suoi attori?
È di una precisione assoluta, che a volte rasenta la
maniacalità. Avevamo la stessa chiave di lettura del personaggio, quindi sul
set non ci sono state tensioni. Sa essere intransigente quando è necessario e
in quei casi non ne lascia passare una. Del resto, io credo sia importante che
un regista abbia una visione forte. Nello stesso tempo, Régis sa ascoltare gli
attori e i tecnici e fare tesoro dei suggerimenti più validi, per migliorare un
ambiente, la recitazione di un attore, un dialogo, ecc. Alla fine delle
riprese, ho avuto la sensazione di aver goduto di una grande libertà ed è stato
il film che mi ha visto più partecipe, persino nella scelta dei costumi e delle
acconciature e nella riscrittura di alcuni dialoghi. Trovavo, per esempio, che
alcune battute suonassero un po' troppo «da ragazzina» e che non fossero
abbastanza femministe. I due cosceneggiatori sono stati estremamente
comprensivi e hanno accettato di incorporare le modifiche che avevo suggerito. È
stata straordinaria la sensazione di coinvolgimento totale in ogni singola
tappa del film e di costante confronto.
Le ha fatto
piacere portare i vestiti e le acconciature degli anni '50?
L'ho adorato! Molti dei
costumi sono stati ideati apposta per il film e io ho potuto modificarli
parlandone con la costumista. Spesso la consultavo per sapere se un determinato
completo era coerente con l'epoca o se una data scollatura era in linea con il
personaggio. Abbiamo lavorato insieme in particolare riguardo all'abito rosa
alla fine del film. All'inizio, non avevamo affatto scelto il bustier che poi
abbiamo tenuto e che io avevo adorato nella scena di COME SPOSARE UN MILIONARIO
in cui le tre attrici arrivano in abito da sera a una cena. Era importante che
io potessi muovermi nel vestito e che fossi sufficientemente a mio agio per
cambiare senza difficoltà i fogli e maneggiare la macchina per scrivere. Ho
fatto aggiungere un nodo a fiocco nel bustino e plissettare la gonna e abbiamo
dato all'abito nel suo insieme una linea più a sbuffo per farlo assomigliare
agli abiti da cocktail dell'epoca. La tonalità viene da una rivista degli anni
'50. E sono state le costumiste a proporre il magnifico tessuto in cui lo hanno
realizzato: appena l'ho visto sono impazzita e ho trovato geniale che Rose chiudesse
il film vestita di rosa davanti alla macchina per scrivere Japy rosa!
All'inizio Régis lo trovava troppo cliché, ma con le costumiste ci siamo
coalizzate per convincerlo e quando ha visto tutte le ragazze in estasi per il
tessuto si è arreso!
Intervista
con Bérénice Béjo
Come è
arrivata a questo progetto?
Quando, nel settembre dell'anno scorso, mi sono
ritrovata tra le mani la sceneggiatura, non l'ho più abbandonata: mi è sembrata
perfettamente elaborata e finita e il racconto aveva qualcosa di preciso e di
sincero. E, soprattutto, la storia mi ha commosso. All'inizio ho detto al mio
agente che il ruolo di Marie era forse un po' troppo modesto. Ma quella stessa
sera, mi sono resa conto che era una sciocchezza, perché il motivo per cui
voglio recitare in un film è l'interesse che suscita la sceneggiatura e non la
rilevanza della parte che interpreto! Ho quindi richiamato il mio agente per
spiegargli che mi sarebbe piaciuto partecipare al progetto, anche in un ruolo
secondario. Quando ho incontrato Régis Roinsard, ero entusiasta e ansiosa di
fargli capire che ero pronta a stare al gioco, incarnando il personaggio con
tutto quello che comportava: i bigodini, il grembiule, la retina per i capelli
e il mattarello! Credo che la mia disponibilità sia stata una delle cose che lo
ha affascinato. Non ho cercato di cambiare il personaggio né di abbellirlo
perché desideravo interpretarlo così come era scritto. In seguito, per
convincerlo, ho fatto alcuni provini, mentre ero incinta fino al collo! Ma lo
avevo anche invitato alla proiezione stampa di THE ARTIST perché vedesse il mio
modo di recitare.
Che sensazioni
ha provato leggendo la sceneggiatura?
Sono rimasta subito colpita dal fatto che era misurata
a regola d'arte, che ogni scena era stata meditata e che nessun dettaglio era
stato trascurato. Non a caso nell'ambiente dei professionisti di cinema c'era
una straordinaria aspettativa: tutti avevano sentito parlare di questo
progetto. È molto raro leggere una sceneggiatura così completa dove non c'è
bisogno di cambiare o di aggiungere una sola riga.
Marie, il suo
personaggio, è un vero catalizzatore di emozioni...
È un aspetto che mi è
piaciuto enormemente. Marie ha poche scene, ma ce n'è una molto importante in
cui il personaggio interpretato da Romain Duris prende coscienza del fatto che
non può ancora una volta lasciarsi sfuggire l'occasione di essere felice e di vivere
un'esperienza intensa. È una sequenza molto forte che peraltro Régis aveva
riscritto. Quando interpreto un personaggio secondario, il fatto che abbia almeno
una scena in cui deve difendere strenuamente un punto di vista è una
motivazione sufficiente per accettare di fare il film. Di fatto Marie spingerà
un altro personaggio a realizzarsi e a schiudersi alla vita. Ha un'evoluzione e
un percorso veri e propri e questo la rende particolarmente interessante.
Il lavoro sui
costumi l'ha aiutata a costruire il suo personaggio?
Charlotte David, la costumista con cui avevo già
lavorato sui due OSS 117, ha
immaginato Rose Pamphyle come una giovane proveniente dalla provincia che si
veste con graziosi abitini a fiori molto "bon ton", mentre vedeva il
mio personaggio in modo molto diverso. Poiché incarno una donna sposata con un
americano che abita in una casa moderna, ha suggerito che indossassi soprattutto
pantaloni e ballerine e questo mi ha molto aiutata a creare il personaggio. Per
me, Marie appartiene già agli anni '60! Tanto Rose è una ragazzina, quanto
Marie è una donna moderna. Era molto importante che il pubblico potesse
differenziarci molto rapidamente e che cogliesse in fretta la personalità di
Marie, a maggior ragione visto che appare in poche scene. Analogamente, la
parrucchiera ha scelto di farmi portare una parrucca poiché all'epoca si
ricorreva molto di frequente alla messa in piega e alla lacca che impediva ai
capelli il minimo movimento. Per coincidenza, avevo già interpretato personaggi
collocati negli anni '50-'60 e quindi sapevo che postura fisica adottare.
Régis Roinsard
le ha chiesto di documentarsi sugli anni '50 per calarsi meglio nella parte?
Mi ha mandato delle fotografie. Per esempio, per la
scena in cui Déborah François suona il piano, ha voluto che stessi seduta e
incrociassi le gambe in un certo modo per corrispondere a un'immagine che aveva
visto su una rivista. Ha anche voluto che indossassi le stesse scarpe e gli
stessi pantaloni della donna di quella foto. È il suo lato ossessivo! (ride) Ogni
regista manifesta le sue angosce da qualche parte e Régis, dal canto suo, aveva
bisogno che l'atmosfera sul set fosse quasi identica agli anni '50. Era una
cosa che lo rassicurava molto.
Come dirige
gli attori Régis Roinsard?
Sono arrivata tardi sul
set, ma conoscevo già piuttosto bene la troupe e avevo avuto dei riscontri dal
direttore della fotografia, che aveva firmato anche le riprese di THE ARTIST. Ho
capito in fretta che Régis è meticoloso e preciso nella direzione degli attori,
pur restando molto disponibile all'ascolto. E poiché a me piace essere diretta,
siamo andati subito molto d'accordo! Avevamo fatto qualche lettura prima di
iniziare a girare e quindi sapevamo dove stavamo andando. Quello che apprezzo
molto in Régis, è che interviene sulla recitazione degli attori e non solo
sulle inquadrature e sui campi. Insomma, nelle mie cinque giornate di riprese,
mi sono molto divertita!
Intervista
con Alain Attal
Come è
arrivato al progetto?
Grazie a un appuntamento, durante il Festival di
Cannes di due anni fa, con un agente artistico, Lionel Amant. Alla fine del
pranzo, mentre ci stavamo alzando per andare via, ha menzionato al volo un
altro progetto, aggiungendo subito: «Ma tanto tu non produci più opere prime!»
Punto sul vivo, gli ho risposto: «Se c'è un buon soggetto, non ho nulla in
contrario». Prova ne è che il quel periodo stavo preparando il primo
lungometraggio di Romain Lévy. Mi ha raccontato la storia in due parole e io mi
sono riseduto a tavola, completamente affascinato. Innanzitutto, l'ho trovato
un tema a dir poco stupefacente. Non sapevo che fossero esistiti dei campionati
di velocità dattilografica e ho avuto un colpo di fulmine per quell'oggetto
completamente cinematografico che è la macchina per scrivere! Anche il tema
della velocità dattilografica riecheggia in me perché mia madre ha fatto la
dattilografa e ricordo che sul suo curriculum era annotato il numero di parole
che era capace di battere al minuto, criterio di selezione imprescindibile a
quei tempi. Così ho detto a Lionel che volevo essere il primo a leggere la
sceneggiatura.
E poi?
Lionel ha trasmesso il mio
entusiasmo a Régis Roinsard che all'inizio ha pensato che le mie fossero solo
parole al vento, come spesso accade a Cannes. Ho richiamato Lionel per dirgli
che avevo parlato molto sul serio. E quindici giorni dopo ho letto una versione
della sceneggiatura pressoché definitiva, cosa molto rara perché in genere sul
primo copione che un produttore riceve c'è tutto un lavoro di sviluppo e di
riscrittura da fare. Invece la sceneggiatura di Régis era sbalorditiva e
sconvolgente così com'era. Restava da superare una tappa: dovevo incontrare il
regista perché non ci eravamo mai visti. E Régis mi ha subito incantato: era
totalmente posseduto dal suo soggetto, conosceva a memoria il periodo, viveva
letteralmente nel 1959! La mescolanza tra storia romantica e competizione
sportiva era straordinaria. Ho subito visto una specie di ROCKY al femminile.
Anche se la
sceneggiatura era già molto compiuta, ci ha lavorato su insieme Régis Roinsard?
Ho cercato di capire bene dove volesse andare. In
realtà mi sforzo sempre di fare mia la visione di un regista: voglio sapere nel
modo più chiaro possibile che cosa ha nella testa, per arrivare al punto di
conoscere, quasi meglio di lui o lei, le sue intenzioni artistiche. Questo
comporta interminabili discussioni sulla struttura narrativa, sul ritmo, sui
riferimenti, ecc. Régis conosce molto bene il cinema degli anni '50 e '60 e in
questo è perfettamente in linea con me che sono un grande estimatore di autori
come Billy Wilder, Nicholas Ray, William Wyler, Douglas Sirk e l'Hitchcock di
quel periodo. Era necessario che insieme a Régis individuassi le scene chiave
del film per poi orientare una rielaborazione che andasse nella direzione del
suo percorso di cineasta.
Concretamente,
quali modifiche gli ha suggerito?
Abbiamo aggiunto un po' più di fisicità alla coppia.
Già nella prima stesura erano presenti le quattro gare, la gara regionale,
l'allenamento per la stessa competizione l'anno successivo, il campionato
nazionale che Rose vince e il campionato mondiale, ma bisognava dare corpo allo
scambio amoroso e umoristico e andare verso il romanzesco più che verso il
romantico. Abbiamo quindi dato maggiore consistenza alle ragioni per cui Louis non
si vuole impegnare, abbiamo frugato nel suo passato e nella sua relazione con
la moglie di Bob, il suo migliore amico. Abbiamo deciso che Rose e Louis
sarebbero passati all'azione, passaggio che all'inizio non c'era, e la
magnifica scena d'amore ha reso il film più forte. In seguito, quando Louis lascia
Rose, la tensione emotiva non è più la stessa, è demoltiplicata: Louis è per
Rose molto più di un allenatore.
Sul piano
finanziario, è stata una grossa sfida produrre un'opera prima così costosa?
Il film è costato circa 15 milioni di euro, uno dei
budget più consistenti degli ultimi dieci anni per un primo film francese e,
per me personalmente, uno dei film più cari che io abbia mai prodotto. Ma c'è
da dire che, essendo un'opera prima, tutti i soldi investiti si vedono sullo
schermo. In alcuni film a grosso budget, che non sono opere prime, una buona
parte dei finanziamenti vengono assorbiti dal casting, dagli sceneggiatori, dal
regista, e quindi si ha un margine di manovra inferiore per le scenografie, i
costumi, ecc. Un budget simile per un primo film è molto impegnativo da
gestire, poiché tutto il denaro è a disposizione della costruzione del film in
sé, serve a produrlo insomma.
Come ha
convinto i suoi partner finanziari a seguirla?
Ho fatto una scommessa: ho intuito che una
sceneggiatura del genere avrebbe dato origine a un film sbalorditivo. Ma
mettere insieme i finanziamenti per un'opera prima che costa 15 milioni di euro
è quasi una missione impossibile! Il primo passo mio e di Régis Roinsard è
stato di scritturare un attore celebre per rendere credibile il progetto. Per
nostra fortuna, Romain Duris ha adorato la sceneggiatura e ha subito accettato.
Poi, per rassicurare i nostri partner, era imperativo circondarci di grandi
professionisti nei reparti tecnici. Régis e io ci siamo trovati subito
d'accordo nel tentare di persuadere il direttore della fotografia Guillaume
Schiffman, che all'epoca stava ultimando il suo lavoro su THE ARTIST. Dopo aver
messo insieme una solida troupe, sono andato ad incontrare alcuni investitori e
lì ho capito che avevo fatto bene a credere in questo progetto atipico.
Infatti, tutti i potenziali partner a cui avevo proposto la sceneggiatura hanno
accettato, facendosi una concorrenza feroce per riuscire a finanziare il film.
L’accoglienza del comitato di acquisizione di Canal Plus è stata unanimemente
favorevole e Wild Bunch è stata entusiasta. Poi sono andato a trovare diversi
distributori e mi hanno detto tutti di sì. Ho scelto Mars per la loro grande competenza
e la loro adesione al progetto, ma anche perché avevo da poco fatto POLISSE e
ho preferito un distributore che mi aveva sostenuto in un progetto più difficile.
Infine, le reti televisive sono rimaste conquistate dal progetto, ad eccezione
di TF1, che non ci ha creduto. Ho finalizzato un accordo con France 2 e France
3, che si sono impegnate in tandem, cosa piuttosto rara.
Quali sono
state le maggiori difficoltà a livello di produzione?
A partire dal momento in cui si decide di girare un
film d'epoca e di tentare di essere il più possibile realisti, bisogna saper
prendere le decisioni giuste. Di fatto si tratta di trovare il giusto
equilibrio nell'eccellenza della resa artistica tra ciò che è indispensabile
alla storia e ciò che fa piacere al regista che cerca di «giustificarsi». Sono
questioni che si pongono in ogni momento. In veste di produttore, il mio
compito è orientare le scelte del regista per sapere dove una spesa è utile.
Per esempio, si possono avere 300 comparse per il campionato del mondo di
dattilografia o scegliere di averne meno e privilegiare i campi lunghi di New York.
Un figurante in un film d'epoca costa in media 1000 euro al giorno, contro i
130 per la stessa prestazione in un film ambientato ai giorni nostri: il
trucco, il costume d'epoca, la pettinatura d'epoca, più il personale necessario
per tutte queste prestazioni, fa rapidamente lievitare i costi. Analogamente,
si può decidere di avere 40 automobili americane davanti al teatro di New York
o di averne diverse centinaia. Ma se si sceglie la seconda opzione, si è
costretti a fare a meno della gru, delle riprese notturne, ecc...
POPULAIRE
trasmette una sensazione di felicità e benessere, come fanno alcuni grandi
classici del cinema americano.
Credo sia dovuto al fatto
che lo spettatore si identifica con facilità nei meandri emotivi in cui si
addentrano i personaggi: all'inizio, Louis è propositivo, mentre Rose è
piuttosto passiva, poi i rapporti si invertono. Per me, TUTTI PAZZI PER ROSE si
collega idealmente a certi film di Billy Wilder o di Douglas Sirk, in cui
scopriamo una dose di eroismo nascosta in personaggi semplici, siano essi
incarnati da Audrey Hepburn, Cary Grant, James Stewart o Kim Novak. Il caso più
esemplare è quello del personaggio interpretato da Jack Lemmon ne
L'APPARTAMENTO: uno si domanda come quel tizio, che è un codardo, possa essere
un eroe. Ma la sceneggiatura è talmente ben scritta che ci identifichiamo in
lui. Nel copione di Régis Roinsard c'era questo elemento. Per me è una grande
saga su un gruppo di esseri umani che si incontrano, si amano e si allontanano.
Se il film è riuscito, uscendo dalla sala, il pubblico avrà l’impressione di
aver condiviso l’intimità dei suoi protagonisti.
Nella commedia
romantica c'è anche una dimensione sociologica
con l'emancipazione delle donne.
È uno degli elementi che mi hanno sedotto. La tematica
emerge chiaramente nel film: nel 1959, il femminismo consisteva nel voler
diventare segretaria e crearsi uno spazio in un universo dominato dagli uomini,
ovvero l'universo del lavoro. Rose abbraccia completamente l'epoca in cui vive:
incarna una donna che rifiuta il percorso che le viene imposto dall'educazione
e dal padre. In questo senso, è una femminista a tutto tondo: prende in mano il
suo destino e, grazie alla sua perseveranza, trova un impiego e un allenatore e
finisce col vincere tutte le gare. E quando Louis la lascia, lei non crolla, è
una battagliera. Penso addirittura che si emancipi più di Marie, interpretata
da Bérénice Béjo, che, per quanto moderna nel modo di vestire e di atteggiarsi,
ha scelto di restare casalinga.
Quando
accompagna un regista che firma il suo primo lungometraggio, un produttore si
investe in misura maggiore?
Credo che si spenda allo
stesso modo. La differenza sta nel fatto che viene maggiormente interpellato. Il
clima di fiducia è lo stesso che con registi più affermati, ma un cineasta che
gira la sua prima opera ha indubbiamente più domande da farmi, a maggior
ragione quando il budget del film è importante. Régis Roinsard era talmente
riconoscente per il fatto che gli permettessimo di realizzare il suo sogno che
era molto ansioso nella fase della preparazione e mi pressava spesso. Ma a
partire dai primi giorni delle riprese mi sono reso conto che di fatto Régis sapeva
esattamente quello che voleva e quello che faceva, aveva in pugno la sua storia
dalla A alla Z e avrebbe sicuramente fatto un grande film.
Intervista
con Guillaume
Schiffman
Come è arrivato
a TUTTI PAZZI PER ROSE ?
Era da tempo che Alain Attal e io volevamo realizzare
un film insieme. E vuoi perché non avevamo mai trovato un progetto valido, vuoi
perché le date delle riprese erano incompatibili, non eravamo mai riusciti a
farlo. Un giorno, Alain mi ha telefonato chiedendomi di leggere una
sceneggiatura. Io l'ho fatto e ho trovato il progetto insolito e molto, molto
interessante. Era TUTTI PAZZI PER ROSE! A quel punto il mio desiderio era solo
uno: incontrare Régis e assicurarmi che, tra le altre cose, non avesse pensato
a me unicamente per il mio marchio di fabbrica, la mia etichetta «film d’epoca».
E così è stato, visto che si era persino informato su di me e aveva apprezzato
anche il mio lavoro come direttore della fotografia in film contemporanei... Sono
stato felice che Régis mi dicesse che mi aveva cercato per il mio
coinvolgimento sul set e il mio modo intuitivo di lavorare con i registi, di
immergermi nell'avventura di un film con tutta una troupe al servizio dello
sguardo di un cineasta. Inoltre, provo sempre un immenso piacere ad andare a
incontrare attori con cui non ho mai girato. Romain Duris mi sorprende e mi
rende felice da molto tempo e Déborah François mi aveva sbalordito nel film di Emmanuelle
Bercot, STUDENT SERVICES. In effetti penso che il mio desiderio di creare
immagini, oltre che dalla sceneggiatura e dall'investimento del regista, molto
spesso derivi anche dagli attori e dal piacere che provo ad inventare delle
immagini e uno stile visivo insieme a loro.
Quali sono
state le grandi opzioni visive di Régis Roinsard?
Con Régis abbiamo subito
scoperto di avere gli stessi film di riferimento, da qualche parte tra QUALCUNO
VERRA' di Vincente Minnelli e GLI UOMINI PREFERISCONO LE BIONDE di Howard
Hawks. Un ventaglio artistico dei più festosi. Abbiamo anche rievocato i film
di Douglas Sirk e la sua sublime luce barocca ed eccessiva, l'eleganza di
Montgomery Clift, il fascino assoluto di Shirley MacLaine... Più che di grandi
opzioni visive, parlavamo più che altro di emozioni e piacere da cinefili. In
ogni caso, volevamo consentirci degli ampi percorsi di luci. È un film al tempo
stesso molto connotato «anni '60» e molto libero nei movimenti che si concede
in ogni istante.
Come ha
lavorato sullo spettro cromatico?
Non volevo cadere in una sorta di succedaneo del
Technicolor, una gamma di colori desueti, «a casaccio», che non funziona mai.
L’idea era di dare la sensazione di essere immersi in quegli anni, pur essendo
molto irriverenti con l'idea che ci siamo fatti del Technicolor. Rispetto al
Technicolor, i rossi e i verdi sono più spenti, i colori sono leggermente
insaturi… la macchina del tempo a ritroso funziona.
E le
inquadrature?
Le inquadrature sono la messa in scena. Quando si ha
la stessa visione di un film, non si lavora sulle inquadrature, vengono
spontaneamente. Si parla spesso di desideri, emozioni, intenzioni, obiettivi...
Con il grado di libertà che ci eravamo accordati rispetto all'epoca, abbiamo
deciso tutto nel più semplice e armonioso dei modi.
Quando lavora
con un regista che firma il suo primo lungometraggio, si sente più pressato?
La mia impressione è di
spendermi allo stesso livello sia con i registi affermati sia con gli autori di
un'opera prima. Anche se a volte la sollecitazione è maggiore, il mio
investimento resta identico. Régis mi ha sollecitato nella misura in cui l'ho
sollecitato io. Se questo film ha una
qualità, è nel piacere, nella gioia, nellla volontà di farlo bene e nel
coinvolgimento entusiastico di tutta la troupe.
CAST ARTISTICO
Romain Duris Louis Echard
Déborah François Rose Pamphyle
Bérénice Béjo Marie Taylor
Shaun Benson Bob Taylor
Mélanie Bernier Annie Leprince Ringuet
Nicolas Bedos Gilbert Japy
Miou-Miou Madeleine Echard
Eddy Mitchell Georges Echard
Frédéric Pierrot Jean
Pamphyle
Maruis Colucci Lucien Echard
Emeline Bayart Jacqueline Echard
YannikLandrein Léonard Echard
Nastassia Girard Evelyne Echard
CarolineTilette La Vamp
Jeanne Cohendy Françoise
Dominique Reymond Mme Shorofsky
SerpentineTeyssier La
proprietaria della pensione femminile
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