giovedì 9 maggio 2013

Aldo Moro e quel drammatico 9 maggio del 1978


Oggi si commemora il ritrovamento del corpo dello statista Aldo Moro.

« Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della DC. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato. »
(Dal comunicato numero 9)
Ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani
Dalle deposizioni rilasciate alla magistratura è emerso che non tutto il vertice brigatista fosse concorde con il verdetto di condanna a morte. Lo stesso Moretti telefonò direttamente alla moglie di Moro il 30 aprile 1978 per premere sui vertici della DC al fine di accettare la trattativa: la telefonata fu ovviamente registrata dalle Forze dell'Ordine. La brigatista Adriana Faranda citò una riunione notturna tenutasi a Milano e di poco precedente l'uccisione di Moro, ove ella ed altri terroristi (Valerio MorucciFranco Bonisoli e forse altri) dissentirono, tanto che la decisione finale sarebbe stata messa ai voti[42].
Mario Moretti "Maurizio" telefonò il 30 aprile alla moglie di MoroMario Moretti "Maurizio" telefonò il 30 aprile alla moglie di Moro
Mario Moretti "Maurizio" telefonò il 30 aprile alla moglie di Moro
Valerio Morucci "Matteo" effettuò la telefonata finale del 9 maggio
Il 9 maggio
dopo 55 giorni di detenzione, al termine di un processo del popolo, viene assassinato per mano di Mario Moretti, anche se - a tutt'oggi - pare che abbiano partecipato materialmente all'omicidio sia Germano Maccari, che - forse - Prospero Gallinari (quasi certamente Maccari; con diverse riserve si suppone anche Gallinari). Il cadavere fu ritrovato il giorno stesso in una Renault 4 rossa in viaCaetani, in pieno centro di Roma.
Secondo quanto affermato dai brigatisti più di un decennio dopo l'omicidio, Moro fu fatto alzare alle 6 di mattina con la scusa di essere trasferito in un altro covo. Secondo una deposizione di Bonisoli, ennesima incongruenza, a Moro venne riferito di esser stato graziato e - quindi - liberato, una bugia definita dallo stesso brigatista "pietosa", onde "non far soffrire inutilmente oltre" lo statista. Venne infilato in una cesta di vimini e portato nel garage del covo di Via Montalcini. Fu fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa targata Roma N57686 e venne coperto con un lenzuolo rosso. Mario Moretti allora sparò alcuni colpi prima con una pistola Walther PPK calibro 9 mm x 17 Corto e poi (dopo che la pistola si era inceppata) con una pistola mitragliatrice Samopal Vzor.61 (nota come Skorpion) calibro 7,65mm con cui sparò una raffica di 11 colpi che perforarono i polmoni del presidente democristiano, uccidendolo (per molti anni, fino alla confessione di Moretti, si pensava che a sparare fosse stato Prospero Gallinari). Alcune incongruenze riguardano le modalità dell'esecuzione: seppur la pistola che inizialmente venne adoperata per sparare a Moro poteva esser silenziata, difficilmente lo poteva essere la mitraglietta, in quanto il silenziatore non permette la soppressione totale del rumore.
Roma, via Caetani: la targa in ricordo di Aldo Moro nel luogo del ritrovamento del corpo
Poi, una volta eseguito il delitto, l'auto con il cadavere di Moro fu portata da Moretti e Maccari in Via Caetani, senza effettuare soste intermedie, vicino alla sede della D.C. e del P.C. I., dove fu lasciata parcheggiata circa un'ora dopo. All'ultimo tratto del percorso parteciparono su una Simca anche Bruno Seghetti e Valerio Morucci in funzione di copertura. Dopo aver perso tempo per ricercare un posto sicuro per telefonare e per contattare uno dei collaboratori di Moro, finalmente verso le 12.30 Valerio Morucci riuscì ad effettuare la telefonata finale con il professor Francesco Tritto, uno degli assistenti di Moro, qualificandosi inizialmente come il "dottor Niccolai". Con un tono freddo ma corretto chiese, "adempiendo alle ultime volontà del presidente", a Tritto di comunicare subito alla famiglia che il corpo dell'uomo politico si trovava nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, "i primi numeri di targa sono N5...", in via Caetani
La telefonata al professor Tritto venne intercettata e quindi furono le forze dell'ordine che arrivarono per primi in via Caetani. Qualche minuto prima delle due, i segretari di tutti i partiti politici sapevano che il cadavere ritrovato nella Renault rossa targata Roma N57686 era proprio quello di Aldo Moro. La morte risaliva, secondo i risultati autoptici, tra le 9 e le 10 della mattina stessa, orario però incompatibile con la ricostruzione data dai brigatisti (per cui l'esecuzione sarebbe avvenuta tra le 7 e le 8). È da notare che il buco di alcune ore tra l'abbandono dell'auto secondo la ricostruzione dei brigatisti e le prime telefonate di rivendicazione sono giustificate dai brigatisti con il fatto che nessuno dei tentativi di Morucci di contatto telefonico, per annunciare dove era possibile ritrovare il cadavere, con conoscenti ed amici di Moro, effettuati prima della telefonata al professor Tritto, era andato a buon fine.
Alcune testimonianze affermano che la macchina sia stata portata in via Michelangelo Caetani nelle prime ore del mattino, tra le 7 e le 8 e lasciata qui fino a quando gli assassini hanno ritenuto opportuno avvertire. Altre testimonianze, invece, affermano di aver visto la Renault parcheggiata soltanto intorno alle 12.30 e non prima.
In un angolo del bagagliaio, dalla parte dov'è sistemata la ruota di scorta sulla quale poggiava la testa di Moro, c'erano anche le catene da neve, e qualche ciuffo di capelli grigi. Ai piedi del cadavere c'era una busta di plastica con un bracciale e l'orologio.
Il corpo di Moro, quando è stato estratto dagli artificieri, era ripiegato e irrigidito. Indossava lo stesso abito scuro del giorno del rapimento con la camicia bianca a righine, e la cravatta ben annodata; era macchiato di sangue (ma le ferite erano approssimativamente state tamponate con dei fazzolettin), e nei risvolti dei pantaloni è stata trovata una notevole quantità di sabbia e di terriccio e alcuni resti vegetali (i brigatisti sosterranno poi durante i processi di aver appositamente sporcato le scarpe e i pantaloni di sabbia per depistare eventuali indagini sulla locazione del covo in cui Moro era tenuto prigioniero]). Sotto il corpo e sul tappeto dell'auto c'erano bossoli di cartucce. Furono trovate tracce di sabbia non solo nel risvolto dei pantaloni, ma anche nei calzini.
Il cadavere presentava un'altra ferita, su una coscia, una piaga purulenta mai curata, è probabile che fosse una ferita d'arma da fuoco ricevuta il giorno dell'agguato di via Mario Fani.
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Lettere dalla prigionia 


« Il papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo. »
(Lettera alla moglie Eleonora del 5 maggio 1978])
« Siamo ormai credo al momento conclusivo...Resta solo da riconoscere che tu avevi ragione...vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC con il suo assurdo e incredibile comportamento...si deve rifiutare eventuale medaglia...c'è in questo momento un infinita tenerezza per voi...uniti nel mio ricordo vivere insieme...vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo. »
(Lettera alla moglie Eleonora del 5 maggio 1978
Durante il periodo della sua detenzione, Moro scrisse 86 lettere LE LETTERE DAL PATIBOLO DI ALDO MORO - Critica Sociale ai principali esponenti della Democrazia Cristiana, alla famiglia ed all'allora Papa Paolo VI (che avrebbe poi presenziato alla solenne messa funebre di Stato nella basilica di San Giovanni in Laterano, peraltro celebrata senza il feretro dello statista, negato dalla famiglia in polemica con la conduzione della vicenda). Alcune arrivarono a destinazione, altre non furono mai recapitate e vennero ritrovate in seguito nel covo di via Monte Nevoso. Attraverso le lettere Moro cerca di aprire una trattativa con i colleghi di partito e con le massime cariche dello Stato.
È stato ipotizzato che in queste lettere Moro abbia inviato messaggi criptici alla sua famiglia ed ai suoi colleghi di partito. Non immaginando che i brigatisti la renderanno pubblica, in una lettera inspiegabilmente domanda: Vi è forse, nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e tedesca? (lettera di Aldo Moro su Paolo Taviani senza destinatario, recapitata tra il 9 ed il 10 aprile ed allegata al comunicato delle Brigate Rosse numero 5); altra ipotesi, avanzata dallo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, è che nelle lettere medesime Moro avesse l'intenzione di inviare agli investigatori messaggi sulla localizzazione del covo, per segnalare che esso (almeno nei primi giorni del sequestro) si trovasse nella città di Roma: "Io sono qui in discreta salute" (lettera di Aldo Moro del 27/3/78, non recapitata a sua moglie Eleonora Moro).
Nella lettera recapitata l'8 aprile scaglia un vero e proprio anatema: "Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni che significa attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro".
Dubbi sono stati avanzati circa la completa pubblicazione di queste lettere; il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (successivamente ucciso dalla mafia) trovò copie di alcune lettere ancora non note in una casa che i terroristi utilizzavano a Milano (noto come covo di via Monte Nevoso) e, per qualche altrettanto ignoto motivo, questo recupero fu effettuato solo molti anni dopo.
L'opinione del mondo politico di allora riteneva, tuttavia, che Moro non avesse piena libertà di scrittura. Nonostante la moglie di Moro affermi, durante la deposizione al processo delle BR, di riconoscere lo stile di suo marito, le lettere sarebbero state da considerarsi se non dettate quantomeno controllate o ispirate dai brigatisti. Anche appartenenti al "Comitato degli esperti" voluto da Cossiga, tra cui il criminologo Ferracuti, in un primo tempo affermarono che Moro era stato sottoposto a tecniche di lavaggio del cervello da parte delle BR. C'è da sottolineare che tutti i membri di quel Comitato, eccetto Cossiga, erano iscritti alla P2, compreso Franco Ferracuti tessera 2137 e simpatizzante dell'estrema destra . Cossiga ammetterà tuttavia anni dopo di essere stato lui a scrivere parte del discorso tenuto da Giulio Andreotti in cui si affermava che le lettere di Moro erano da considerarsi non "moralmente autentiche"
Alcune affermazioni di Moro nelle lettere, per esempio quelle in cui parla di scambi di "prigionieri", al plurale, fanno supporre che le Brigate Rosse gli avessero lasciato intendere di non essere l'unica persona sequestrata. È possibile che lo statista ritenesse che anche alcuni uomini della sua scorta o forse altre personalità rapite altrove, fossero nelle sue medesime condizioni e che quindi gli eventuali tentativi di accordo per la liberazione che cercava di portare avanti dovessero riguardare tutti gli ipotetici sequestrati.[32]

Muro con manifesto appeso all'indomani del rapimento
Durante i 55 giorni del sequestro Moro le Brigate rosse recapitarono nove comunicati con i quali, assieme alla risoluzione della direzione strategica, ossia l'organo direttivo della formazione armata, spiegarono i motivi del sequestro; questi erano documenti lunghi ed a volte poco chiari. Nel comunicato numero 3 si lesse:
« L'interrogatorio, sui contenuti del quale abbiamo già detto, prosegue con la completa collaborazione del prigioniero. Le risposte che fornisce chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste stanno attuando; delineano con chiarezza i contorni e il corpo del "nuovo" regime che, nella ristrutturazione dello Stato Imperialista delle Multinazionali si sta instaurando nel nostro paese e che ha come perno la Democrazia Cristiana. »
Ed ancora:
« Moro è anche consapevole di non essere il solo, di essere, appunto, il più alto esponente del regime; chiama quindi gli altri gerarchi a dividere con lui le responsabilità, e rivolge agli stessi un appello che suona come un'esplicita chiamata di "correità". »
Le Brigate Rosse proposero, attraverso il comunicato n. 8, di scambiare la vita di Moro con la libertà di alcuni terroristi in quel momento in carcere, il cosiddetto "fronte delle carceri", accettando persino di scambiare Moro con un solo brigatista incarcerato, anche se non di spicco, pur di poter aprire trattative alla pari con lo Stato. Un riconoscimento venne comunque ottenuto quandopapa Paolo VI, amico personale di Moro, in data 22 aprile rivolse un drammatico appello pubblico col quale supplicava "in ginocchio" gli "uomini delle Brigate Rosse" di rendere Moro alla sua famiglia ed ai suoi affetti, specificando tuttavia che ciò doveva avvenire "senza condizioni".
La politica si divise in due fazioni: il cosiddetto fronte della fermezza, nettamente maggioritario poiché comprendeva il Governo - specialmente il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga - e quasi tutti i partiti presenti in Parlamento (DC, PCI, MSI, PRI, PSDI, PLI), che rifiutava qualunque ipotesi di trattativa, ed il fronte possibilista, nel quale spiccava Bettino Craxi e che comprendeva anche il Presidente del Senato Amintore Fanfani, l'ex Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (in dissenso dalla posizione ufficiale del PSDI e del suo segretario Pierluigi Romita) e il leader radicale Marco Pannella, incline a ritenere che un eventuale avvicinamento, allo scopo di intavolare una trattativa per salvare la vita dello statista, non avrebbe svilito la dignità dello Stato.
Secondo il fronte della fermezza, la scarcerazione di alcuni brigatisti avrebbe costituito una resa da parte dello Stato, non solo per l'acquiescenza a condizioni imposte dall'esterno, ma per la rinuncia all'applicazione delle sue leggi ed alla certezza della pena; una trattativa coi rapitori inoltre avrebbe potuto creare un precedente per nuovi sequestri, strumentali al rilascio di altri brigatisti, od all'ottenimento di concessioni politiche, e, più in generale, una trattativa con i terroristi avrebbe rappresentato un riconoscimento politico delle Brigate Rosse; di contro la linea del dialogo avrebbe aperto alla possibilità di una rappresentanza partitica e parlamentare del loro braccio armato, e posto questioni di legittimità in merito alle loro richieste. I metodi intimidatori e violenti, e la non accettazione delle regole basilari della politica, ponevano il terrorismo al di fuori del dibattito istituzionale, indipendentemente dal merito delle loro richieste.
Prevalse il primo orientamento, anche in considerazione del gravissimo rischio di ordine pubblico e di coesione sociale che si sarebbe corso presso la popolazione, ed in particolare, presso le forze dell'ordine, che in quegli anni avevano pagato un tributo di sangue già insostenibile a causa dei terroristi. L'epilogo anticipò comunque una presa di posizione definitiva dei governanti. Alcuni autori, tra cui il fratello di Moro nel succitato saggio, fanno notare alcune apparenti incongruenze nei comunicati delle BR. Un primo punto riguarda l'assenza di riferimenti al progetto di Moro di apertura del governo al PCI, questo nonostante il fatto che il rapimento fosse stato effettuato lo stesso giorno in cui questo governo doveva formarsi, e nonostante l'esistenza di comunicati precedenti e successivi agli eventi dove vi erano espliciti riferimenti e dichiarazioni di contrarietà al progetto da parte dei brigatisti. Anche una lettera indirizzata a Zaccagnini da parte di Moro, con un riferimento al progetto, venne fatta riscrivere in una forma in cui questo era omesso.
Un secondo punto riguarda le continue rassicurazioni date nei comunicati da parte dei brigatisti secondo i quali tutto ciò che riguardava il "processo" a Moro ed i suoi interrogatori sarebbe stato reso pubblico. Tuttavia, mentre nel caso di altri rapimenti, come quello del giudice Giovanni D'Urso, addetto alla direzione generale degli affari penitenziari, questa diffusione del materiale era stata effettuata, anche senza essere ribadita in maniera così forte e con materiale ben meno importante, nel caso Moro questa diffusione non si ebbe mai, e solo con la scoperta del covo di via Monte Nevoso a Milano diverrà pubblicamente noto, inizialmente in una versione ridotta, il memoriale Moro (presente solo in fotocopia) e alcune lettere inizialmente non diffuse. Gli stessi brigatisti hanno affermato di aver distrutto le bobine degli interrogatori e gli originali degli scritti di Moro, in quanto ritenuti non importanti, nonostante in questi vi fossero riferimenti a Gladio e la connivenza di parte della DC e dello Stato nella strategia della tensione, che ben sembrano identificarsi con il tipo di rivelazioni che le Brigate Rosse andavano cercando.

9 Maggio 2013. Pres. Camera Laura Boldrini: Stamattina in via Caetani, nel ricordo di Aldo Moro e degli agenti della sua scorta. E poi al Senato, per la Giornata in memoria delle vittime del terrorismo. 
Dure e toccanti le parole di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, di Giovanni Ricci, figlio dell'appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, autista di Aldo Moro, e di Gianpaolo Mattei fratello delle vittime del rogo di Primavalle. Impressionante la lunghezza dell'elenco dei delitti di cui è stata data lettura. 
Ma ha ragione il Presidente Napolitano: se ce l'abbiamo fatta a uscire da quegli anni bui, ce la possiamo fare anche oggi, nonostante la difficile crisi economica.

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