Una nuova “colonizzazione” è in atto. La rivincita sul vecchio mondo, l’India la conquista a suon di best seller, Booker prize e incassi ai botteghini. Lontani gli oltre due secoli di dominazione coloniale, è in corso una vera “contro dominazione” dell’India verso l’Occidente fatta di tendenze culturali che la rendono elemento trainante in Europa e negli Stati Uniti.
Che l’India stesse doppiando il vecchio mondo dal punto di vista economico, non lasciava dubbi il ben noto testa a testa con la Cina. Sorpasso che – a buona ragione – non ha evitato neppure la sua produzione artistica. L’industria editoriale indiana è la terza al mondo dopo quella americana e britannica: oltre 95mila libri pubblicati ogni anno. Quasi il doppio dei volumi stampati in Italia.
E dato che il mercato di libri in lingua inglese la fa ancora da padrone, le sue aziende sono diventate punte di diamante per i colossi del libro internazionale. Harper Collins, Penguin, Lonely Planet, Hachette, Random House e Simon & Schuster hanno già aperto un avamposto a New Delhi. Da poco inaugurato anche Junglee, l’ecommerce di Amazon per l’India.
Ma la crescita del colosso asiatico non è solo nelle vendite. Tutto è iniziato quando Salman Rushdie spiazzò la critica con I figli della mezzanotte (Booker Prize nel 1981, Mondadori). Lo scrittore, che ha appena pubblicato la sua autobiografia, Joseph Anton a memoir, è stato un apripista. Grazie a Rushdie, come dice Arundhati Roy, «il mondo ha smesso di chiedere all’India di essere una caricatura di se stessa e della sua cultura millenaria, e l’ha lasciata semplicemente alzare il viso e dire: io sono così». E citando la Roy, come dimenticare il caso letterario de Il dio delle piccole cose, Booker prize nel 1997 e best seller internazionale edito in Italia da Guanda. Poi, nel 2001 il Premio Nobel a V.S. Naipaul, indiano di origine e non di nascita. Nel 2006 un altro Booker prize, questa volta a Eredi della sconfitta (Adelphi) di Kiran Desai, figlia della scrittrice Anita Desai. Ma la lista non è terminata: quattro anni fa a guadagnarsi l’ambito premio letterario è Aravind Adiga con La tigre bianca (Einaudi) romanzo di debutto del giornalista e scrittore indiano, che studia il contrasto tra l’ascesa dell’India come potenza economica e il protagonista, Balram, che arriva dal povero mondo rurale. «Un romanzo dove si ha il polso dell’India attuale – racconta Silvia Albertazzi, docente di Letteratura indo-inglese all’università di Bologna – che potrebbe unirsi all’olimpo dei grandi autori indiani da sempre tradotti e presenti nelle nostre librerie: Vikram Seth, Amitav Gosh, Anita Nair, e tanti altri». Alcuni vivono ancora in India, altri sono emigrati in Canada, Inghilterra o negli Stati Uniti, ma tutti scrivono dell’India o degli immigrati indiani all’estero. «Tra i candidati al Booker prize da tenere d’occhio Jeet Thayil, autore di Narcopolis – continua Silvia Albertazzi – un libro che a partire dal discorso sui traffici di droga fonde il mondo del realismo con quello fantastico. Si potrebbe dire un romanzo narrato da una pipa, cioè dalla pipa con cui si fuma l’oppio».
Oltre a chi festeggia il miracolo della letteratura indiana, c’è anche chi critica questo successo che ha portato, sulla scia di una “moda indiana”, anche libri di scarso livello. Testi scritti con un occhio al mercato europeo, che dell’India vuole sentire parlare ma senza riuscire a togliere dal comodino la sua immagine esotica. «In Europa non entra nulla dell’India che non ci sia già», racconta Federico Squarcini, professore di Filosofie e religioni dell’India alla Ca’ Foscari di Venezia. «La posizione accademica che parla di un’India più complessa di quella narrata nei romanzi o sui giornali, semplicemente non trapela. Come fosse irricevibile. E gli indiani che parlano con noi, accettano questo tipo di condizionamento».
In parte è anche vero, ma bisogna ammettere che, sulla scia di questo successo, si sono iniziati a tradurre nuovi autori che scrivono in hindi o bengali: un fiume di titoli che sarebbe stato difficile conoscere diversamente. Come La trilogia del seno (Filema edizioni) di Mahasweta Devi, la più grande scrittrice in bengali che ci sia oggi in India. La Devi è molto politicizzata, interessandosi dello sfruttamento delle donne indigene e delle situazioni non metropolitane, di minoranza, a volte anche molto violente. Erano gli anni Novanta, e l’Europa stava iniziando ad abituarsi a un nuovo ruolo che gli scrittori indiani avrebbero reso sovrano: i saggi come veicolo di battaglie sociali. Quasi sempre, nel subcontinente, essere scrittore significa essere attivista politico. 

In controtendenza con quanti credono l’India capace di realizzare testi ad hoc per i lettori europei, secondo il giornalista e antropologo Alessandro Cisilin parte del ceto intellettuale indiano all’estero è cresciuto, «emancipandosi da un élitismo snobistico, è tornato a raccontare molto bene la sua terra. Kiran Desai, per esempio, è una scrittrice efficace che narra con raro distacco e ironia».
Una “Shining India” tra gli scaffali, il doppio di una Bollywood dove il lieto fine è d’obbligo, anche ai botteghini. Un successo per il cinema indiano: nel 2011 il giro d’affari di Hollywood è stato di 11 miliardi, quello di Bollywood di quasi 12. Un indizio tra tutti: i film indiani sono meno costosi e facili da esportare. Così il 30 per cento delle pellicole va al mercato statunitense; altrettanto in Europa. E dopo il boom a Londra, da tenere d’occhio la calda accoglienza che sta ricevendo in Olanda, Germania e Scandinavia. Il museo delle cere di Madame Tussauds a Londra, per sicurezza, possiede già una sezione bollywoodiana.
Ma il quadro è complesso. «C’è una maturazione in atto nel cinema indiano – continua Cisilin – che inizia a occuparsi non solo di tematiche ludiche e non per forza scontate». Così accanto allo star system, un piccolo Davide entra in campo: il cinema d’autore. Incapace di raggiungere il successo di pubblico in patria, coperto di onori all’estero, fino all’Oscar alla carriera per Satyajit Ray nel 1992, e il Leone d’Oro del 2001 per Monsoon Wedding della regista Mira Nair. Una vocazione internazionale che appartiene al dna dell’India “nuova colonizzatrice artistica”, nelle corde dei registi residenti all’estero, come Nair, e dei loro film tanto amati dal pubblico occidentale. Per citarne alcuni distribuiti anche in Italia ed emblema di questo melting pot, la trilogia Fuoco, Terra e Acqua completata nel 2005 dalla regista indo-canadese Deepa Mehta, o gli 8 premi Oscar vinti nel 2009 da Slumdog Millionaire. In riferimento a una certa complessità culturale, Marx definiva l’India «un’Italia dalle dimensioni asiatiche». Ma forse sarebbe più corretto descriverla con una frase del poema epico indiano Mahabharata: «Tutto quello che si trova nel Mahabharata esiste anche altrove. Quello che non c’è, non si trova da nessun’altra parte». Passo che forse si potrebbe applicare anche alle tendenze artistiche indiane, nelle loro multiformità, alla conquista dell’Occidente.
Fonte: (Left)