sabato 24 agosto 2013

35 anni fa l'elezione di Giovanni Paolo I, il Pontefice veneto che sarebbe improvvisamente scomparso dopo un mese. I tratti comuni con Francesco


CITTÀ DEL VATICANO
Sabato 26 agosto 1978, nel pomeriggio, dopo appena un giorno di conclave, il cardinale protodiacono Pericle Felici annunciava ai fedeli in piazza San Pietro l'elezione del patriarca di Venezia Albino Luciani, il successore di Paolo VI. Di umili origini, nato a Canale d'Agordo, in una valle delle montagne bellunesi, Luciani - che aveva scelto il nome di Giovanni Paolo in onore dei suoi due immediati predecessori - era stato vescovo di Vittorio Veneto e quindi cardinale patriarca nella diocesi della Serenissima. Il suo «regno» è durato soltanto 33 giorni: il Papa fu trovato morto nel suo letto la mattina del 29 settembre.

 
L'importanza del suo pontificato, ebbe a dire Giovanni Paolo II, fu «inversamente proporzionale alla sua durata». In effetti, quello che viene spesso ricordato come «il Papa del sorriso», suscitò molte speranze. La semplicità del suo approccio e del suo linguaggio, le sue parole sul peccato e la misericordia, il suo essere parroco e pastore, la sua evidente estraneità ai giochi curiali hanno lasciato un ricordo indelebile in tante persone che ancora lo venerano. Promossa da tanti fedeli e dall'intero episcopato del Brasile, la causa di beatificazione si avvicina alle battute finali ed è in fase di completamento la «Positio» con la documentazione e le testimonianze.
 
Anche se diversi per storia, provenienza e formazione, Papa Luciani e l'attuale vescovo di Roma Francesco hanno diversi aspetti in comune. Francesco è un religioso gesuita, Luciani un prete secolare. Ma è nota l'attrattiva che il giovane Albino avvertiva per l'ordine fondato da Sant'Ignazio, a motivo dell'influenza esercitata su di lui dal gesuita bellunese padre Felice Cappello, del quale era anche lontano parente. Lo ha testimoniato la sorella di Giovanni Paolo I, Antonia Luciani, in uno scritto pubblicato su «30 Giorni»   una decina d'anni fa.

«Mio fratello, ad un certo punto, ha avuto il desiderio di farsi gesuita. Questo lo confidò proprio a me. Erano gli anni 1934-35. Poco tempo prima che venisse ordinato sacerdote. Due suoi compagni di seminario, con i quali l’Albino era amico di vecchia data, erano entrati nella Compagnia di Gesù: padre Giuseppe Strim di Falcade e padre Roberto Busa... Mi disse: "Sai che Giuseppe Strim e Roberto Busa si sono fatti gesuiti? Anche a me piacerebbe tanto...". "E se lo vuoi" dissi "fai così anche tu". "Non posso", rispose. "Chiedi il permesso al vescovo...". E lui: "Glielo ho chiesto, ma ha risposto di no". Servivano sacerdoti in diocesi. E così a lui il vescovo non lo consentì».
 
Un primo tratto che accomuna i due Papi è la semplicità delle loro parole e la capacità di farsi capire anche dalle persone più umili. Luciani aveva ricevuto su questo una grande lezione dal suo parroco di Canale, che al giovane seminarista aveva raccomandato di predicare sempre tenendo presente che le sue parole dovevano essere comprese anche dalla vecchietta seduta in fondo alla chiesa che non era andata a scuola. «Catechetica in briciole» è il titolo del libro che Luciani pubblicò nel 1949, e anche da vescovo, cardinale e Papa rimase fedele a quella raccomandazione del parroco. Le poche udienze generali che ebbe modo di tenere in Vaticano durante il mese di pontificato, caratterizzate da dialoghi con le persone, senza testi scritti, sono un esempio che rimane nella memoria. Anche Francesco, come dimostrano le brevi prediche mattutine a Santa Marta, ma anche le numerose aggiunte fuori testo durante gli Angelus, le catechesi e le omelie, comunica in modo semplice e diretto.
 
Ci sono poi sintonie che riguardano il messaggio. Papa Francesco, fin dall'inizio del suo pontificato, ha sottolineato l'importanza della misericordia, da lui presentata come il messaggio più importante di Gesù. Misericordia e perdono: «Dio mai si stanca di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono». Anche Luciani insisteva su questo tema: «Nessun peccato è troppo grande: una miseria finita, per quanto enorme, potrà sempre essere coperta da una misericordia infinita». Da Papa, lui che aveva voluto la parola «humilitas» nel suo stemma episcopale, ricordava: «Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo pentiti, restino umili...». Entrambi hanno sempre sottolineato l'importanza della grazia, dell'iniziativa di un Dio che ci «primerea», ci precede. Entrambi hanno cercato - come del resto ha fatto anche Benedetto XVI - di ridurre il protagonismo del Papa.
 
Sia Luciani che Bergoglio, anche dopo l'ordinazione episcopale, hanno continuato a trascorrere del tempo in confessionale, a contatto con le persone e i loro problemi. Francesco fin dai primi giorni di pontificato ha raccontato episodi riferiti alla sua esperienza di confessore e ai dialoghi avuti con i penitenti. Luciani aveva maturato una posizione possibilista - prima della pubblicazione dell'«Humanae vitae» di Paolo VI - sulla contraccezione, proprio a motivo del suo stare in confessionale.
 
Un altro punto in comune è rappresentato dall'allergia verso i preti maneggioni che usano a sproposito il denaro. Papa Francesco ha già messo mano allo Ior, finito sotto accusa per la sua gestione non sempre trasparente. Nel dialogo con il rabbino Abraham Skorka pubblicato nel libro «Il cielo e la terra», l'allora cardinale Bergoglio riferiva un episodio accaduto poco dopo la sua nomina a vescovo ausiliare, agli inizi degli anni Novanta, quando due funzionari ufficiali cercarono di coinvolgerlo in transazioni finanziarie poco pulite con la scusa delle offerte per i poveri: «Per certe cose io sono un grande ingenuo, ma per altre mi si attiva "l'allertometro". E quella volta funzionò». Luciani si è dovuto confrontare con un problemi simili a Vittorio Veneto, e non è un mistero che, da patriarca di Venezia, non avesse digerito la spregiudicatezza di certe operazioni della «banca vaticana».
 
Anche il tema della «Chiesa povera e per i poveri» accomuna le due figure. Entrambi dimessi e poco legati agli orpelli del «vescovo príncipe», hanno più volte parlato di questo tema. Rimasero famose e fecero scalpore le parole pronunciate da Giovanni Paolo I durante un'udienza, quando disse che la proprietà privata «non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto» ricordando che «i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza». Erano parole di Paolo VI.
 
Infine non va dimenticata la sottolineatura che Francesco, fin dal suo primo saluto ai fedeli la sera del 13 marzo scorso, ha proposto sul suo essere innanzitutto «vescovo di Roma». In un colloquio con il Segretario di Stato Jean Villot, Giovanni Paolo I disse: «Dico a lei con il cuore in mano che prima di tutto io sono un prete, adesso sono anche Papa, ma io voglio essere un pastore, non un funzionario d’ufficio... Io sono prima il vescovo di Roma e poi il Papa. So che sono due cose in una, ma io non voglio fare la figura della comparsa davanti ai miei parroci e alla mia gente».

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