In buona compagnia
I gesuiti, confratelli del cardinal Martini, trovarono un gran difensore in Balzac che li vedeva come cercatori di felicità per gli uomini. In terra più che in cielo
Odio o amore: di questi opposti sentimenti, senza quasi vie di mezzo, sono stati fatti segno i gesuiti nel corso della loro illustre e plurisecolare storia, continuamente segnata da controversie, successi, persecuzioni e folgoranti riabilitazioni. Ripercorrere l’esperienza pastorale e intellettuale del cardinale Carlo Maria Martini, dopo la sua morte, ha comportato anche, per molti versi, riconoscere i segni della sua appartenenza alla Compagnia di Gesù. E si potrebbe azzardare, proprio guardando a Martini, che nell’esperienza dei continuatori dell’opera di sant’Ignazio di Loyola, più che per altre obbedienze ecclesiastiche, l’essere “nel” mondo sia stato interpretato con accento forte, con una sottolineatura che di quell’ordine ha fatto la grandezza ma ha anche determinato, in più occasioni, la problematicità.
Grandezza e problematicità che emergono anche dall’appassionata difesa dei gesuiti in cui si impegnò nel 1825 il ventiquattrenne Honoré de Balzac. “Storia imparziale dei gesuiti”, si intitolava l’opuscolo firmato con uno pseudonimo dal futuro artefice della “Comédie humaine”, che in quell’opera giovanile e militante – pubblicata con le stesse modalità e nello stesso periodo di un altro breve scritto politico, “Sul diritto di primogenitura” – riversò l’ardore di una duplice e contraddittoria ispirazione, nella quale coesistevano istanze liberali e sentimenti legittimisti. Come spiega il critico Lanfranco Binni, autore di un profilo biografico e letterario dello scrittore francese, in quei due scritti Balzac volle esporre “alcune idee che entreranno a far parte della sua concezione politica della società: nei gesuiti ammira gli organizzatori tenaci, nell’abolizione del diritto di primogenitura da parte del codice napoleonico vede una pericolosa causa di disgregazione delle proprietà e quindi della società” (pro domo sua, peraltro, visto che Balzac era un primogenito poco amato dalla madre, a vantaggio di un figlio cadetto). Lo scrittore e biografo di letterati Pierre Sipriot, in “Balzac sans masque” (Robert Laffont), ha notato che “Balzac sarà, per indole, un eterno oppositore: liberale sotto il re ultra Carlo X, e monarchico legittimista sotto Luigi Filippo, il re borghese. Tuttavia, il 7 febbraio 1825 e il 7 aprile dello stesso anno, pubblica due opuscoli che, agli occhi dei suoi amici liberali, lo fanno passare per traditore, per corifeo di ‘Trono e Altare’. Il primo milita in favore del diritto di primogenitura, il secondo per la riabilitazione dei gesuiti in Francia”.
Undici anni prima, il 7 agosto 1814, una bolla di Papa Pio VII aveva riabilitato nel mondo intero la Compagnia di Gesù, dopo la soppressione dell’ordine decisa da Papa Clemente XIV nel 1773 e seguita ad anni di attacchi e di accuse. Ma solo dal 1820 i gesuiti avevano potuto riaprire timidamente alcuni noviziati Oltralpe, assai osteggiati dall’Università, che reclamava il monopolio dell’educazione, cioè dell’attività fondamentale dei gesuiti, precedente e fondamento anche della loro attività missionaria. In epoca di piena restaurazione borbonica, scrive Sipriot, “l’Università gode di una brutta reputazione. Il regime l’accusa di diffondere idee sovversive tra gli elementi più nocivi della nazione. Un rapporto collettivo di credenti lamenta che, alla fine degli studi, nei collegi, solo due allievi su cento rimangono fedeli alle pratiche religiose. I gesuiti allora si organizzano e mettono in campo la Congregazione con le sue filiali: Società delle Buone Opere, Associazioni di san Giuseppe (per trovare lavoro agli operai disoccupati), Società dei Buoni Studi, Società dei Buoni Libri. Ma l’opinione liberale rifiuta gli ordini religiosi: l’anno giubilare in cui tutti gli organi dello stato, re Carlo X in testa, partecipano a una processione, provoca collera. Alla Camera, sulla stampa, nei pamphlet di Paul-Louis Courier, nelle canzoni di Béranger si grida: ‘Abbasso i gesuiti!’. Il partito clericale è accusato di infiltrarsi nella vita politica e nell’Amministrazione”.
Si riaffacciano vecchi fantasmi mai scomparsi, gli stessi che avevano già portato all’anatema contro la Compagnia di Gesù (prima tra tutte, l’accusa di attaccamento ai beni mondani e al potere, di volta in volta incarnato in politiche di sostegno all’assolutismo o sovversive). Eppure, le frequentazioni liberali non impediscono al giovane Honoré de Balzac di pensare, aggiunge Sipriot, che “sotto l’influenza dei gesuiti, la Francia può trovare il modello di una cooperazione armoniosamente ripartita. L’ordine di Ignazio è ‘una vera Repubblica con le sue leggi, i suoi capi, i suoi amministratori, il suo sigillo, la sua polizia, il suo governo, infine simile a un vero vascello galleggiante liberamente sui mari’. E’ già l’apologia di un potere autorevole che Balzac non cesserà di invocare… Balzac ha scrutato il proprio tempo. Vede la politica per quello che è: con i suoi intrighi, i suoi agenti segreti, i suoi fondi occulti… Ma il lato riprovevole di questa società non deve far ignorare agli uomini di stato l’assoluta necessità, dietro queste nubi, di una speranza”.
L’articolazione della difesa dei gesuiti concepita dall’autore delle “Illusioni perdute”rivela molto chiaramente un’ispirazione tutta politica e secolare. Lo storico della chiesa Michele Ranchetti (che fu allievo e poi successore per venticinque anni di Delio Cantimori all’Università di Firenze) nell’introduzione alla “Storia imparziale dei gesuiti” pubblicata dalle edizioni Medusa, ha scritto che “per Balzac gli aspetti, anzi il carattere ‘religioso’ della Compagnia, la straordinaria novità degli Esercizi ignaziani, non sembrano rivestire particolare rilevanza: per Balzac hanno rilievo le costituzioni, ossia la struttura della società, e il modello che essa offre. Per questo, dovendo, quasi solo per ragioni di completezza narrativa, riferire delle controversie religiose, per esempio della disputa teologica fra giansenisti e gesuiti, si limita a qualche accenno, mentre la sua partecipazione di storico è ridotta al minimo e vi si rivela quasi un’insofferenza per l’insorgere e il protrarsi di dispute inutili e se mai dannose per l’equilibrio della società civile e delle anime. Prevale in lui la necessità di difendere i comportamenti della Compagnia, quali che essi siano, in un certo senso, al di fuori di ogni possibile occasione ‘storica’, rinviando alla necessità della sua presenza nella storia, della Francia in particolare, come elemento ordinatore. Balzac non sembra distinguere o riconoscere i possibili altri modi di riferirsi alla professione di fede, sembrerebbe anzi che la storia delle diverse forme di obbedienza alla rivelazione cristiana non abbia per lui alcun senso”. La stessa religione cattolica, aggiunge Ranchetti, è concepita da Balzac “come l’unica forza che istruisce e disciplina un’umanità che tende al male, e i gesuiti hanno da sempre rappresentato il modo ‘per eccellenza’ di corrispondere al suo compito. In particolare, ne sono conferma i risultati eccellenti che si devono ad essi nei campi del sapere e delle arti, come se solo conformandosi ai loro princìpi pedagogici l’umanità potesse conseguire i suoi straordinari successi: per la gloria dei poeti, degli scienziati, dei condottieri e degli artisti, la Francia è debitrice all’istruzione gesuitica che si è contrapposta alla miseria morale e alle inutili controversie dottrinali dell’istituzione rivale, l’università”.
Non è dunque in nome del motto della Compagnia, “Ad maiorem Dei gloriam”, che Balzac elogia Ignazio e i suoi primi sei compagni, i quali il 15 agosto del 1534, festa dell’Assunzione (sei anni prima di ottenere da Paolo III l’istituzione della Compagnia di Gesù), fecero voto di castità e povertà nella cappella della Vergine a Montmartre: “Chi non ammirerà il meraviglioso spettacolo di questi sette uomini mossi da un nobile pensiero, che rivolgendosi al cielo depongono sotto la volta d’una cappella i loro desideri, le loro speranze terrene, uniti da un solo sentimento: quello della felicità dei propri simili?”. E’ in quel programma, chiosa Ranchetti, l’elemento che per Balzac rende la Compagnia di Gesù, “si direbbe costituzionalmente, incapace di errore, perché essa corrisponde a una necessità dell’anima umana: il conseguimento della felicità per se stessi e per i propri simili. La forma che il genio di Ignazio ha concepito per realizzare questo fine, la Società di Gesù, è l’esempio di una società perfetta che si pone come strumento visibile e operante all’interno della società civile e in qualsiasi situazione politica, e al tempo stesso all’interno della confessione di fede cristiana, pur senza coincidere con nessuna delle forme istituzionali esistenti e senza confondersi o allinearsi con altre forme di esercizio della carità o con ordinamenti retti da regole di perfezione quali i diversi ordini monastici”.
Le dispute religiose, prima tra tutte quella riguardante il contrasto dottrinario con i giansenisti sul ruolo della grazia e della misericordia divine nella salvezza degli uomini, non riscaldano affatto il cuore di Balzac e non muovono più di tanto la sua penna. Lo scrittore se la cava inserendo nel pamphlet – il cui scopo essenziale era quello di riaccreditare anche in Francia i gesuiti nel ruolo di leali educatori e alleati dell’ordine dello stato – i testi completi delle due bolle papali, quella di soppressione dell’ordine firmata da Clemente XIV e quella di riammissione di Pio VII. Definita, quest’ultima, “la conseguenza del trionfo dei buoni princìpi sull’anarchia”. Nella sua foga apologetica, Balzac mette in relazione la soppressione e la sparizione della Compagnia di Gesù per trent’anni dalla scena europea con i rivolgimenti tragici che avevano segnato quel periodo: “L’assenza in Europa della Compagnia era stata contrassegnata dalle più sanguinose rivoluzioni ma il genio del bene, per volere speciale della Provvidenza, riesce a trionfare un istante”. Ma, all’epoca della stesura della “Storia imparziale”, di quel trionfo non faceva ancora parte la piena accettazione, in Francia, delle attività della Compagnia, ancora accusata di cercare il potere, di tramare, di lavorare a una sorta di stato parallelo. Eppure, scrive Balzac, “come si può supporre che la Compagnia formata da Ignazio di Loyola coll’intento di procurare benefici a tutte le nazioni indistintamente e con l’ordine di conformarsi ovunque ai costumi, alle leggi, alle usanze vigenti, la Compagnia che istruiva la Cina sotto il mantello del mandarino, sarebbe nemica al governo della costituzione, incompatibile con la libertà? Incompatibile con la libertà! Analizziamo questa idea che è in fondo il riassunto di quanto oggi si dice contro la Società. La libertà che racchiude nella sua essenza il giusto esercizio di tutte le volontà, di tutte le forze, di tutti i culti, l’espressione di tutte le opinioni non può essere nemica di una istituzione che è il vero modello del governo rappresentativo e che si allea con tutti i regimi! V’è dunque una nuova incoerenza tra il pensiero politico e morale che ci prova l’esistenza ancor oggi di una avversione indefinibile e senza ragione contro quest’ordine mal compreso”.
Il giovane Honoré de Balzac volge dunque in positivo quella mirabile duttilità dell’ordine, quella disponibilità ad “allearsi con tutti i regimi” che già nel passato non era stata interpretata in modo lusinghiero, perché considerata spregiudicatezza volta al potere. Funziona a doppio taglio anche un altro suo argomento in favore della riabilitazione dei gesuiti in Francia: “Lo scarso entusiasmo del secolo per la religione impedirà senza dubbio ai nemici dell’ordine di opporre al suo stabilimento il timore che si abbiano di nuovo a verificare gli scandali occasionati dal giansenismo. Si può infatti ritenere possibile oggi una nuova disputa sulla grazia e sull’uso frequente dei sacramenti?”.
L’allusione alla disputa teologica con i giansenisti serve a Balzac per minimizzare ancora una volta il peso “religioso” dei gesuiti, quasi fosse la condizione per enfatizzarne l’effetto benefico, pienamente secolare, sulla gloria, la cultura e i buoni costumi del paese: “La Francia, accogliendo i gesuiti con riconoscenza e rispetto, non sarà che giusta, e come premio della sua giustizia si preparerà una nuova messe di gloria: essa vedrà ancora sorgere genii sublimi e il ritorno dei Borboni rimarrà impresso nella storia del mondo come un’epoca ancor più luminosa del Gran secolo”. Prima ancora, Balzac aveva enumerato decine grandi francesi, debitori ai gesuiti della loro educazione, da Richelieu a Voltaire, da Descartes a Montesquieu, da La Rochefoucauld a Bossuet.
L’allusione alla disputa teologica con i giansenisti serve a Balzac per minimizzare ancora una volta il peso “religioso” dei gesuiti, quasi fosse la condizione per enfatizzarne l’effetto benefico, pienamente secolare, sulla gloria, la cultura e i buoni costumi del paese: “La Francia, accogliendo i gesuiti con riconoscenza e rispetto, non sarà che giusta, e come premio della sua giustizia si preparerà una nuova messe di gloria: essa vedrà ancora sorgere genii sublimi e il ritorno dei Borboni rimarrà impresso nella storia del mondo come un’epoca ancor più luminosa del Gran secolo”. Prima ancora, Balzac aveva enumerato decine grandi francesi, debitori ai gesuiti della loro educazione, da Richelieu a Voltaire, da Descartes a Montesquieu, da La Rochefoucauld a Bossuet.
Nel suo entusiasmo al limite dell’ingenuità, in quella difesa a oltranza il giovane Balzac riesce tuttavia a centrare un elemento essenziale della vicenda della Compagnia di Gesù. Della valorosa Società che per la gloria di Dio e amore del mondo era riuscita ad arrivare dove nessun altro aveva osato portare il messaggio cristiano. Lo stesso impeto e lo stesso coraggio che avevano guidato Francesco Saverio, sodale della prima ora di Ignazio di Loyola, nelle Indie orientali, e padre Matteo Ricci in Cina, quella stessa disponibilità a comprendere e ad adattarsi, insieme con il culto della conoscenza come corollario dell’amore di Dio, avrebbero preso forme più complesse e problematiche in quei particolari territori che chiamiamo modernità e postmodernità. L’appoggio dato alla teologia della liberazione e l’atteggiamento – dai connotati davvero “politici” – di un personaggio come padre Pedro Arrupe, che resse la Compagnia per quasi vent’anni all’indomani del Concilio Vaticano II; o la stessa idea martiniana che, nel prendere atto del rifiuto diffuso della morale cattolica, si è incessantemente applicata al problema di come adattare quella morale ai tempi, sono figli – legittimi o illegittimi, a seconda dei punti di vista – dell’intraprendenza e della volontà di lavorare alla “felicità dei propri simili” che Balzac ravvisò nel giuramento di Montmartre da cui nacque la Compagnia di Gesù. Un altro illustre gesuita spagnolo vissuto nella prima metà del Seicento, Baltasar Gracián, lo aveva detto con astuto candore nel suo “Oracolo manuale e arte di prudenza”: “Non esser l’unico a condannare quel che a tutti piace. Se una cosa soddisfa tanta gente, deve indubbiamente avere in sé qualche cosa di buono; e anche se non ce lo sappiamo spiegare, converrà goderne… Se tutti affermano una cosa, o è vera o vuol diventare tale”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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