mercoledì 20 novembre 2013

L’ombra della Seconda guerra mondiale nell’animazione giapponese


Tornando oggi ai tempi in cui da bambini guardavamo Mazinga, probabilmente a tutti è venuta spontanea una domanda: “Ma tutti gli alieni dell’universo… solo Tokyo prendono di mira?!”
Da quella domanda, rimasta nell’orecchio per anni, prende piede questo studio sulle motivazioni di tante visioni apocalittiche ed esplosioni atomiche nell’animazione giapponese di un certo periodo storico. Che esista una connessione fra immaginario e realtà è un dato di fatto; ma che esista un’ulteriore connessione fra animazione e periodo bellico, è un percorso da seguire nelle sue anse, perché spesso nei racconti giapponesi i rimandi non sono presentati su un piatto d’argento, ma intrecciati nel sottosuolo della trama, volutamente scoperti a poco a poco.
Chi in Italia negli anni ’70 si è trovato di fronte ai nuovi cartoni animati giapponesi, abitati da enormi robot e mostri alieni, fosse un bambino o un genitore al suo fianco, necessariamente si è posto il “problema”: questi cartoni erano qualcosa di nuovo, troppo diversi da quelli che conoscevamo per non attirare l’attenzione. Abituati alle favole disneyane, trovarsi di fronte ad alabarde spaziali e lame rotanti faceva il suo effetto: di riprovazione, solitamente, da parte di genitori preoccupati che tanta violenza potesse avere ripercussioni pericolose sul proprio figli; d’ipnosi televisiva invece sui figli stessi, che rimanevano incollati di fronte a quei cartoni “da grande”.
Ovviamente la domanda “Perchè Tokyo?” tendeva a ridicolizzare una presunta megalomania del popolo giapponese, vittima predestinata delle mire espansionistiche di tutto l’universo; era una domanda di sfida, creata per non avere una vera risposta.
Ma si parte da qui per delineare connessioni fra animazione e guerra, in particolare sui rimandi alla Seconda guerra mondiale. Perché tante storie a sfondo bellico, con armi capaci di annientare in un attimo tutto il Giappone e di riflesso l’umanità? Perché protagonisti che si immolano per salvare il mondo, scienziati folli che creano fonti di energia in grado di distruggere il nemico, robot antropomorfi che sono essi stessi armi contro il proprio stesso pilota o cyborg, uomini ibridi costruiti per essere il combattente perfetto, non senza ripercussioni psicologiche.
Ripensare a questi temi, a distanza di quasi 40 anni dalla loro prima messa in onda non fa solo sorridere per quella domanda sarcastica, ma fa riflettere bene sulla vera risposta da dare, a quella domanda e sulla simbiosi fra uno dei periodi più neri della nostra storia, come la Seconda guerra mondiale e un’arte piccola come l’animazione, in questo caso quella giapponese, che stava assumendo una fisionomia sempre più definita nell’universo mediatico del tempo, reduce di un sentore post-bellico non dimenticato.

Ripensando Goldrake: incontro fra storia reale e storie di carta

Le basi da cui partire alla ricerca di una risposta ai nostri quesiti sono due: l’una interna al linguaggio adottato dal mezzo, ossia l’animazione giapponese in quanto tale, capendo in cosa differisca dal nostro concetto di cartone animato; l’altra inerente alla storia stessa del popolo che produce questo linguaggio, per ritornare con la mente a ciò che è accaduto nel Paese del Sol Levante poco prima che esplodesse il boom dell’animazione seriale. In special modo ripensando alla sua storia bellica, dato che su uno sfondo bellico si muovono i nuovi personaggi dell’immaginario.
La questione “linguaggio è presto detta: gli Anime (così come vengono chiamati in patria i cartoni animati giapponesi, da una traslitterazione abbreviata dell’inglese “Animation”) non sono cosa per bambini. O meglio: al pari dei fratellastri da cui muovono, i manga (ossia i fumetti giapponesi), gli anime sono un genere ad ampio spettro, che raccoglie attorno a sé un target costituito da una varietà di fruitori, che vanno dal lattante fino all’adolescente, al limite con l’età adulta.
L’animazione giapponese è pensata come puro mezzo di comunicazione, come può esserlo un romanzo o un film, che cambia volto a seconda dell’autore e del contenuto, e per questo può rivolgersi ad un pubblico infantile, se la sceneggiatura è infantile, ad un pubblico adulto, se la sceneggiatura è adulta. Il disegno è il mezzo con cui un cartone animato si esprime, ed è un mezzo talmente duttile e adattabile a seconda dell’occhio cui è diretto, che può rivolgersi con colori accesi e forme morbide all’uno, o con stile graffiante e temi forti all’altro.
Sotto questa luce qualsiasi storia può essere raccontata. Si può attingere da favole inventate o rivisitazioni di libri per l’infanzia, come da panorami storici reali, reinterpretando la propria o l’altrui storia nazionale. Nel secondo caso, nei casi meglio riusciti, gli autori riescono a trovare un bel compromesso fra momento d’evasione e quello istruttivo. Non è detto, in questo secondo caso, che la dimensione storica venga presentata come elemento principale: a volte i riferimenti storici fanno da sfondo ad una narrazione di fantasia principale, ma che fa capo ad uno scenario realmente esistito.
Si può capire come possa essere attraente una storia d’invenzione confezionata su un quadro storico, se solo si tiene conto che la storia giapponese ha un gusto quasi fabulistico fino a oltre metà ’800, momento della sua apertura all’Occidente, che lascia indietro un mondo medievale tutto proprio: un teatrino fatto di fascinose geishe, samurai che all’improvviso si trovano a girovagare per il Giappone senza un padrone, sotto un ordinamento politico che si snoda attraverso le caste dello shogunato, fatto di signorotti arroccati in un mondo silenzioso di giardini chiusi e porte scorrevole che sa di antico ancora alle soglie del secolo scorso. Un mondo che viene sconvolto senza ritorno all’arrivo dal mare di misteriose Navi Nere.
Il secondo fattore che ha condizionato quel filone specifico dell’animazione a sfondo bellico-militare, è proprio la situazione storica del periodo. Andando a ritroso, eccoci al momento che maggiormente ha segnato le condizioni e l’immaginario giapponese: la Seconda guerra mondiale.
Partiamo dalla sua fine disastrosa. Dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, gli Stati Uniti contrattaccano il nemico che ha osato sfidarlo in casa propria. Il 6 agosto 1945, il bombardiere B29 chiamato Enola Gay sgancia, su Hiroshima Little Boy, il primo ordigno nucleare della storia dei conflitti armati e tre giorni dopo, Fat Man, il secondo ordigno, viene sganciato su Nagasaki.
Due nomi, Little Boy e Fat Man, tanto giocosi all’orecchio quanto crudeli negli effetti che si portano dietro: a partire da quel momento, il Giappone è fuori dai giochi della guerra.
La bomba atomica influenzerà in maniera profonda sia le dinamiche sociali che industriali post-belliche, andando a modificare l’immaginario collettivo del mondo intero, ma soprattutto del Giappone “nuclearizzato” che virerà verso l’esperienza del reducismo della “morte atomica”.
Da qui i tanti ricordi trasposti in animazione di chi la bomba l’ha vissuta sulla propria pelle, come tanti autori e animatori che operano dagli anni ’60 in avanti.
Un tema così forte non si presta ad una serie televisiva, per le sue tinte drammatiche e lo spirito poco commerciale: più facile diventa trasporre i ricordi in un solo, forte lungometraggio. Caso emblematico è La Tomba delle lucciole(Takahata 1988).
Il film presenta una visione straziante delle vicende di un ragazzo e della sorellina davanti all’orrore della guerra e per questo non risulta (e non vuole essere) adatto ad un pubblico troppo giovane.
Qui la guerra e le su conseguenze sulla popolazione civile è riproposta sfacciatamente, senza nasconderla o edulcorarla: c’è la volontà di parlare, di raccontare come sono andate tempo prima le cose, perché non vengano dimenticate. E il fatto di raccontarle attraverso gli occhi di due bambini rende il tutto a maggior ragione poco sopportabile.
Ma non solo il terrore nucleare: molte altre componenti restano nella mente di chi ha vissuto la tragedia della guerra con quell’Occidente cui volontariamente si era aperto da meno di un secolo. Prima fra tutte, la relazione quasi speculare con la Germania di Hitler, l’alleata con cui condivide la bruciante sconfitta e a cui da lì in avanti guarderà più volte, quasi per metabolizzare e scacciare l’immagine di colui col quale aveva stretto alleanza, colui che si rivela il nemico che tutto il mondo combatte.
Alla figura di Hitler guarda Osamu Tezuka, uno dei grandi maestri dell’animazione giapponese. Normalmente il modo d’intendere l’animazione di Tezuka si rivolge ad un pubblico molto giovane: l’autore, pur con la volontà di parlare di argomenti importanti, riesce a trattarli con la dovuta cautela e poesia, per renderli accettabili ad un pubblico tanto sensibile. Tuttavia, nel caso della sua opera I tre Adolf (Tezuka 1983), alza volontariamente il target, per dipingere la figura del Führer. Per far questo, trova un escamotaje: ripensa a quanto un nome possa appartenere a figure diverse e tramite tre differenti storie che si intersecano, tocca le corde intime della storia del nemico di sempre, ponendo interrogativi non nuovi sulle motivazioni dell’odio razziale di Hitler verso gli ebrei e ipotizzando che lui stesso potesse avere avuto radici ebree. Una posizione, questa di Tezuka, che riprende alcune teorie vagheggiate sulla figura di Hitler da alcuni studiosi.
Che i primi e più odiati nemici di Hitler fossero gli ebrei non è argomento che abbia bisogno di essere dimostrato. Le origini del suo viscerale antisemitismo sono state discusse a lungo, senza giungere a conclusioni certe. Alcune teorie sono decisamente infondate: quella che fa derivare la sua paranoia antisemita da presunte tracce di sangue ebraico nella sua discendenza famigliare è irrealistica, mentre più plausibile, anche se non suffragata da prove, è l’ipotesi che egli temesse che il padre fosse ebreo. Ancora più fantasioso è il tentativo di spiegare l’avversione hitleriana contro gli ebrei con un trauma isterico da lui patito in conseguenza ad un avvelenamento da gas, che egli avrebbe accostato alla morte di sua madre nel 1907 sotto l’effetto di un gas anestetico somministratole da un medico ebreo, cui al contrario egli dimostrò negli anni gratitudine per aver assistito la madre (Kershaw 2008).
Di fatto le cause della mania antisemita di Hitler restano avvolte nell’ombra. Né Tezuka ha la pretesa di trovare una soluzione ad una questione tanto annosa quanto delicata. Il suo intento è semplicemente quello di porre la questione: lanciare un interrogativo affinché il lettore possa acquisire un “ragionevole dubbio”: il modo migliore per istigare a pensare.
Ma il nemico non è solo quello del passato: è anche quello silenzioso, che si nasconde in patria senza far rumore, ma che è presente in ogni meccanismo economico, sociale e politico: gli Stati Uniti.
Invisibile mano sul Paese, mentre nel mondo post-bellico aleggia il sentore della Guerra fredda e del bipolarismo basato sulla prova di forza nucleare fra Stati Uniti e Russia, nel Giappone post-bomba gli occupanti americani instaurano un proprio modello di organizzazione politica e sociale di tipo liberale e occidentale. L’amministrazione del generale Mac Arthur impone una nuova costituzione redatta da funzionari americani, che trasformano l’autocrazia imperiale in una monarchia costituzionale, introducendo un sistema parlamentare. Così facendo, la potenza americana smantella definitivamente l’illusione imperialistica giapponese, dopo che già le bombe atomiche avevano rappresentato non solo un duro colpo militare, ma anche una pesante sconfitta tecnologica che cancellava l’altra illusione: quella del primato scientifico.
In verità il protettorato americano rappresenta per il paese una rampa per un rilancio economico che il popolo giapponese riesce ad interpretare al meglio, crescendo nel ventennio 1950-1970 uno sviluppo medio del 15% annuo, e realizzando con mezzi pacifici quel primato tecnologico inseguito prima del conflitto mondiale. Ma a differenza dell’alleata Germania, per il Giappone gli Usa, rappresentano anche gli unici responsabili della più grande tragedia e della più grande sconfitta bellica della storia nazionale.
Da questa situazione non nasce tuttavia un sentimento antiamericano, ma un rielaborato spirito nazionalista millenario che è alla base della propria ripartenza sociale ed economica, mentre ancora il ricordo dei propri morti resta un “memento” più vivo che mai.
Di questa volontà ossessiva di rivalsa sono figlie le prime animazioni robotiche, che puntano sul primato tecnologico giapponese per sovvertire armi nemiche sempre più dirompenti, e sulla strenua forza di volontà del ragazzino qualunque che diventa protagonista. È il mantra del Giappone del dopoguerra, l’adoperarsi per diventare da uomo comune all’uomo che fa la differenza, a favore di una comunità di cui è parte integrante e di cui si sente il responsabile maggiore, chiunque egli sia.
Colui che incarna i temi del filone robotico tipico dei primi anni ’70, è anche il primo fra tutti i robot giganti con pilota a bordo dell’animazione giapponese: è Mazinga Z (Nagai 1972), di cui neppure in Italia è necessaria la presentazione, per fama.
Qui il nemico viene riesumato riscoprendo un’antica tecnologia appartenente ad un’antica razza evoluta e caduta per smania di assoggettare la Terra oltre le proprie realistiche possibilità: si sente un’assonanza forte con quella razza superiore ostentata dal Terzo Reich, cui non si può evitare di far caso.
Qui inoltre viene ripresa la figura dello scienziato genialoide; al pari dei dottori tacitamente autorizzati dal governo hitleriano a compiere esperimenti su cavie umane per le proprie ricerche senza alcun rispetto, il Dottor Inferno non esita ad usare a proprio vantaggio l’antica tecnologia nel peggiore dei modi, ricreando un esercito per assoggettare il nemico. Ancor più espliciti, poi, sono i rimandi nel personaggio del conte Blocken, ex-militare nazista, che per poter continuare la sua opera distruttiva, viene “resuscitato” dal dottore, che lo trasforma in un cyborg: la ricerca è finalizzata senza remore morali alla creazione del soldato perfetto.
Ma i rimandi non si limitano a colpire l’avversario di sempre: neanche il “buono” è immune da dubbi. Koji, il protagonista della serie, si scopre eroe moderno ed ambivalente: in lui esiste una parte oscura che non viene nascosta allo spettatore, ma che per senso di dovere, disciplina in battaglia e obiettivo da raggiungere, non verrà mai ad avere il sopravvento sulla parte positiva.
È come se, a distanza di tempo, il Giappone voglia riscattarsi dal suo lato oscuro, che già una volta l’ha posto dalla parte sbagliata delle barricate e per questo voglia imporsi, come Koji, di fare la cosa giusta; anche se difficile, anche se la propria natura porterebbe verso un’altra direzione. Lo sbaglio di un tempo ha avuto un prezzo troppo alto: qualsiasi cosa succeda, Koji deve perseguire la giusta via.
In definitiva, una serie all’apparenza banale come Mazinga, nasconde mille scheletri nell’armadio, da espiare in una rilettura catartica. A supporto di questo, i ritrovamenti sembrano l’allegoria del pericolo che viene dal passato e di come, per andare avanti ed essere parte del futuro, si debba sconfiggere il male del passato, anche se costretti ad usare la forza, che in questo caso trova giustificazione morale nel fatto di essere contrapposta ad una forza malvagia.
In conclusione, quindi: linguaggio e contenuti sono le basi gettate per un nuovo cinema d’animazione nipponico. Un nuovo “pensare per immagini” cresce nel dopoguerra. È un linguaggio che si permette di rivisitare la guerra in modo personale, ripensando strategie, armi, nemico e in fondo sé stesso. Il rinnovo del linguaggio visivo coincide con il rinnovamento della società dopo il disastro bellico e nascono nuovi protagonisti di un immaginario completamente diverso e aderente alla realtà.
Da questo momento si può parlare di un’epoca “prima di Goldrake” e “dopo Goldrake”(Ghilardi 2010), usando il celebre robot come personaggio per antonomasia quale capostipite del filone robotico. Passato qualche anno, il passo è breve: si va oltre ai robot e si ripensa alla Guerra fredda, alle strategie sotterranee di un popolo contro l’altro, in cui il vero protagonista è l’uomo, instabile nel controllare uno scenario più grande di lui: si arriva all’epoca di Gundam.

Il cyborg: il superuomo e l’androide. Cortocircuito fra passato e futuro

C’è un momento in cui nell’immaginario collettivo mondiale, si impone una figura del tutto nuova, che pone interrogativi ed affascina il pubblico con la sua natura ibrida: lungo l’arco degli anni ’70 ed ’80 la figura del cyborg rivoluziona l’idea della fantascienza per ragazzi.
Non solo nell’animazione, ma nei romanzi, nei media pubblicitari, nel cinema ci si interroga sull’eventualità che in un possibile futuro possa esistere un essere che combini parti umane con parti robotiche, che abbia la forza e le capacità di una macchina (macchina da guerra, solitamente) con una componente umana, che conservi in sé un residuo di sentimenti umani, a contrastare le decisioni razionali di un cervello computerizzato. Che conservi un’anima, insomma.
Si pensi a Terminator o a Blade Runner: opere che hanno cambiato lo scenario del cinema fantascientifico, attuali e godibili oggi come ieri perché fondano le radici di un nuovo tipo di narrativa, il cyberpunk, e si conquistano a buon diritto l’appellativo di cult senza tempo.
È un secondo livello della fantascienza, quello che si viene a creare, perché protagonista assoluto torna ad essere l’uomo, con tutte le problematiche che si porta dietro dalla notte dei tempi, ma amplificate dal suo essere uomo a metà e a metà arma vivente, con conseguente perdita d’identità.
Il cinema cavalca felicemente questo filone, riscoprendo temi da scandagliare in ogni sua angolazione, nel momento in cui l’essere umano è costretto ad estraniarsi da sé stesso e valutare il suo essere umano, ora che è messo di fronte ad un’umanità che gli sfugge dalle mani.
Per quanto riguarda l’animazione, la fantascienza ha sempre avuto una corsia preferenziale, proprio per la natura stessa del suo essere medium di immagini irreali. È indubbiamente più facile creare mondi extraterrestri disegnandoli, che non ricostruendoli nella “realtà vera”, questo è un dato di fatto. Gli effetti spettacolari, i colori vividi, le ambientazioni spaziali: tanto più sono irrealistiche nel contesto reali, quanto più risultano reali in quello disegnato. Integrando il discorso, rende un effetto paradossalmente più veritiero disegnare un personaggio a metà fra l’essere umano e l’essere macchina.
Così il cyborg entra nell’immaginario dei cartoni animati ed in modo particolare negli anime giapponesi, che trovano delle trame nascoste per rinvigorire l’idea dell’androide con tematiche che si riallacciano al passato prossimo, con riferimento speciale all’idea nazista dell’uomo perfetto di razza ariana, e di conseguenza dell’idea del supercombattente artificiale creato attraverso esperimenti scientifici.
È necessario soffermarsi su questo secondo punto-base da cui parte il nuovo genere d’animazione, che prende piede dalla ricerche di eugenetica d’idea nazista.
Qual era l’idea effettiva della Germania di Hitler a riguardo? Quella che iniziò con un non meglio definito “programma di eutanasia” per evolversi fino ad una “purificazione razziale”?
Sicuramente un’idea dai contorni vaghi, perché non era pensabile che esistesse un nome concreto ed univoco per un’idea, peggio ancora per una pratica, che il mondo potesse accettare: era più utile rimanesse qualcosa di mutante, a disposizione delle mani plasmanti degli scienziati che si avvalevano di un’incredibile possibilità di sperimentazione. D’altra parte, l’unico a conoscenza di un tale progetto era Lammers, capo della Cancelleria del Reich, uno dei consiglieri fidatissimi del gerarca. Quando Hitler venne sollecitato a rilasciare autorizzazioni scritte, vi furono non poche difficoltà, scontrandosi con l’abituale riluttanza nell’esprimere comandi netti e definiti. La questione si concluse con un mandato in bianco di poche righe; ma tanto incontestabile era l’identificazione fra la legge e la persona del Führer, che persino un’autorizzazione informale venne considerata atto legislativo vincolante.
L’inizio di tutta la vicenda fu quasi casuale: una petizione alla Cancelleria del Führer da parte di un uomo per avere il permesso di “addormentare” definitivamente il proprio figlio deforme, fece partire l’autorizzazione di Hitler al suo medico personale, Karl Brandt, perché soddisfacesse la richiesta, e successivamente l’autorizzazione data a Brandt e al capo della Cancelleria Bouhler per altri casi simili. Già da tempo Hitler si era posto ideologicamente la “questione eutanasia”. Bouhler fu spinto dal suo vice Brack ad ottenere un preciso incarico per organizzare il programma, andando incontro ai desideri dello stesso Hitler, favorevole a una soluzione fuori del controllo delle autorità sanitarie.
Nell’ottobre del 1939 era stata messa in moto un’organizzazione che poté avere quindi inizio con la pronta collaborazione di medici incaricati di fornire liste di possibili “candidati”.
Nella realizzazione del “programma” confluirono medici di case di cura, ben disposti a fare la loro parte di lavoro, in una questione di temi legati all’eugenetica e la salute razziale, discussi già prima dell’avvento del Terzo Reich.
Scoppiata la guerra, Hitler nominò Himmler Commissario per il Rafforzamento della razza tedesca, una carica che gli dava pieni poteri per perseguire senza scrupoli la “purificazione razziale” tanto agognata, e che già ai tempi della Prima guerra mondiale, lo stesso Hitler aveva auspicato come unica soluzione, di fronte ad un popolo sconfitto, a causa dell’imbastardimento che lo aveva colpito dall’interno, essendosi mischiato nelle sue maglie più intime con sangue non ariano.
Non solo criminali nazisti, ma anche moderni professionisti esperti in campi molto diversi fra loro poterono approfittare della situazione e giustificare le loro azioni disumane facendo ricorso al “volere” del Führer. Così, eliminare le restrizioni imposte alla sterilizzazione forzata di chi era affetto da malattie ereditarie e fisiche, o di chi era considerato “indesiderabile”, aprì le porte a un’entusiastica collaborazione di medici e psichiatri con polizia e autorità governative locali tramite i cosiddetti Tribunali di Eugenetica, in cui caddero vittima più di 400.000 persone (Kershaw 2008).
Durante la guerra, nei campi di concentramento nazisti, furono effettuati esperimenti medici sui prigionieri. Questi stessi vennero fatti con lo scopo dichiarato di condurre ricerche che permettessero di migliorare la possibilità di sopravvivenza e di guarigione dei soldati tedeschi in guerra, ma anche di migliorare dal suo interno la “razza ariana”. Per gli internati e per le loro sofferenze, nessuno degli autori di questi esperimenti mostrò la minima preoccupazione. Quel che era chiaro a medici e scienziati del tempo che si siano macchiati di tali comportamenti era che esisteva del “materiale umano” e che questo materiale era a loro disposizione.
A tutto questo attinge l’animazione giapponese e contribuisce essa stessa allo sviluppo di temi, prospettando sibillina ripercussioni future nel reale.
È una sorta di gioco del “se fosse” allo sbando. E se le sperimentazioni genetiche fossero andate oltre? E se questa razza umana, che si voleva perfetta, fosse stata in grado di ricrearsi, clonando sé stessa senza guardare in faccia alla dignità umana? E se semplicemente i tempi all’età del nazismo non fossero stati ancora maturi, ma fosse bastato avere altre conoscenze e avere solo poco più tempo?
Il cyborg diventa l’incubo ricorrente: un uomo potenziato, che per quanto possa avere buone intenzioni, non riuscirà mai a farsi accettare dal resto del suo popolo, né probabilmente ad accettarsi egli stesso, per il suo essere arma dalle sembianze umane.
Il cyborg è un eroe atipico. Non ha la limpidità di Superman, amato dalle folle per il suo volto completamente umano, benché alieno senza che il mondo lo sappia; non ha neppure il fascino oscuro di Batman, che Gotham City ama e teme allo stesso tempo per la sua aura diabolica e notturna di pipistrello umano, ma che in fin dei conti si dota di semplici armi: potentissime, improbabili, ma sempre armi che la sera possono essere deposte sul comodino, per tornare ad essere Bruce Waine.
Il cyborg non appartiene a nulla: è un essere nato da uno stampo unico e per questo non si sente parte né della folla di oppressi che aiuta, né dei nemici di turno che combatte. È un solitario che soffre della sua condizione, senza poterla cambiare.
Queste tematiche si incrociano in Cyborg 009, i nove supermagnifici (Ishinomori, 1979). La Seconda guerra mondiale fa da sfondo alla serie. Torna la minaccia di una guerra imminente per sete di potere da parte di organizzazioni militari, lo spauracchio di nuove armi nucleari create nell’ombra; e in special modo torna prepotente la figura di scienziati di pochi scrupoli. Addirittura in questo caso si parla di sperimentazioni su uomini vivi: come non ripensare alle sperimentazioni naziste dei campi di concentramento? Il “valore aggiunto” della ricerca scientifica qui è quello della trasformazione dell’uomo in cyborg, alla ricerca del combattente perfetto al servizio di un’organizzazione segreta. Andando oltre il reale, la volontà hitleriana di ricreare una razza ariana purificata e perfetta s’incrocia con la fantascienza: i nove ragazzi vengono rapiti dall’organizzazione segreta Black Ghost e diventano veri e propri cyborg mantenendo le proprie sembianze.
Cyborg 009 resta una serie semplice nella costruzione delle storie, nella ripetitività di ogni puntata e nel risalto dato in special modo alle scene di combattimenti. La profondità della serie resta più evidente nelle fondamenta da cui parte, narrate agli albori del racconto e in alcuni episodi di svolta in cui si tratta direttamente della Black Ghost, con l’intento di scavare sulla sua natura.
Non solo la questione dell’ibrido fra uomo e macchina viene messa sotto i riflettori: Ishinomori va oltre e crea deviazioni dalla storia che prendono piede da un secondo periodo storico oltre la Seconda guerra mondiale, che è quello vissuto pesantemente dal Giappone nel dopoguerra della sua sconfitta: la Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Questo tipo di guerra, durante il bipolarismo Usa/Urss, abbarbicato sulla cortina di ferro che si instaurò dopo la fine della Seconda guerra mondiale, verrà combattuta soprattutto con armi diplomatiche dai due blocchi contrapposti, che si tenevano sotto scacco reciprocamente con la minaccia nucleare.
S’instaura l’equilibrio del terrore. L’ombra nucleare avvolge non solo gli stati maggiori, le classi politiche e dirigenziali, ma soprattutto i tessuti sociali più profondi delle popolazioni delle due superpotenze, influenzando anche quelle sotto il loro controllo.
In questo scenario, si sviluppa in Giappone, a partire dagli anni ’60, un nuovo modo di concepire e la guerra, intesa come un connubio tra la strategia militare e le relazioni internazionali.
La nascita di storie che ventilano oscuri piani di organizzazioni segrete ed armi create a propria insaputa pullulano nell’immaginario collettivo e storie come Cybog 009 attingono a piene mani a questo immaginario. Si ricorda che la serie è datata 1968 nella sua prima messa in onda, ossia quando la ricostruzione del Giappone era già ripresa, ma nonostante la tecnologia avanzasse, il popolo nipponico non poteva sentirsi libero delle proprie scoperte. Un cyborg di fantasia che riesca a liberarsi da chi, privandolo della libertà, lo ha reso schiavo ed arma egli stesso contro volontà, diventa una sorta di riscatto impossibile che nel mondo reale non è concesso pensare.
Su corde simili si dipana un’altra serie animata di successo, Gatchaman, la battaglia dei pianeti (Yoshida 1972). Fra loro solo uno è un cyborg, quando gli altri combattenti sono uomini normali. Non solo: Joe, questo il suo nome, muore come essere umano e torna in vita cyborg quando la storia è in pieno svolgimento, alla fine della prima serie. Il trauma del cambiamento quindi è in fieri e si svolge di fronte ai nostri occhi: assistiamo ai continui momenti di desolazione del ragazzo che non riesce ad accettare la sua nuova condizione e si sente in qualche modo inferiore, mentre attorno gli altri quattro componenti della squadra cercano di aiutarlo facendogli dimenticare la sua natura ibrida.
Da notare come il nome del “cattivo”, il Generalissimo X, si riferisca ad una chiara gerarchia militare verticale. È un gerarca carismatico, ipnotico nella sua malvagità, ed è una tipologia che ricorrerà spesso nell’animazione giapponese: il carisma come prima arma di sottomissione è eredità di Hitler, che si poteva permettere di non coniare un vero e proprio programma, restando sul vago nei suoi intenti, ma riusciva ad attrarre le folle con la sua oratoria e presenza scenica.
I Gatchaman vivono di complotti sotterranei e calcano la terra di staterelli europei capeggiati da altisonanti nomi dall’aria tedesca, smaniosi di conquistare il mondo: la fantascienza non nasconde completamente la storia, anzi, la sottolinea in futuri possibili in cui tutto può ripetersi come nel passato.
Le relazioni politiche e i rapporti internazionali giocano un ruolo importante nello svolgersi delle vicende belliche in cui saranno coinvolti i Gatchaman che, unendo le funzionalità dell’intelligence e delle truppe d’assalto, svolgono il ruolo non solo di combattenti, ma hanno il compito di mantenere inalterati gli equilibri tra le nazioni della comunità internazionale.
Altra innovazione da sottolineare è l’introduzione dell’arma segreta da utilizzare solo come extrema ratio. Come la bomba atomica fu l’arma segreta estrema, anche negli anime arriva il retaggio della potente arma che i protagonisti possono e devono usare solo in casi disperati. I Gatchaman possono trasformare la loro astronave God Phoenix in un micidiale uccello di fuoco in grado di sconfiggere qualsiasi nemico, ma l’utilizzo di questo meccanismo mette in pericolo la vita stessa dei piloti, che rischiano di rimanere uccisi durante l’attivazione (Perdisa 2005).
Più adulta delle precedenti, la serie presenta una figura del cattivo che resterà una delle più fortunate ed amate dall’animazione giapponese: non solo quello carismatico, ma quello che non mostra un unico volto, bensì mille sfaccettature. Il cattivo è un uomo, così come lo è l’eroe (i cinque eroi, in questo caso); può cadere, rialzarsi, decidere di essere altro da ciò che è. Tutto sommato, anche questo è riscatto: se non esiste un volto predefinito del Bene e del Male, e se chiunque può scegliere da che parte schierarsi, è possibile che il nemico giurato della Terra possa tornare sui suoi passi e cambiare l’ordine della storia. In questo caso sono ben due i nemici che si ravvedono: il capo sulla Terra dei Galactor, Ratze, e Ghelsandra, ragazzina presa dapprima sotto le ali protettrici del Generalissimo X, poi scopertasi figlia della dottoressa Pandora (nome non messo a caso), amica dei Gatchaman. Chi invece non saprà scoprire una parte più umana di sé, è colui che si scopre non poterne avere: il Generalissimo X è in realtà un computer.
Come da migliore tradizione giapponese, la potenza è nulla senza lo spirito.
In ultimo, ma non per importanza, è d’obbligo soffermarsi su un titolo particolare per intensità: Kyashan, il ragazzo androide (Yoshida 1972). Il ragazzo protagonista si ritrova ad essere trasformato in cyborg dal padre per controbattere un esercito di androidi, frutto di un esperimento finito fuori controllo. I rimandi al terzo Reich sono evidenti a partire dal tratteggio dei “cattivi”: il capo dei robot Briking è un colosso che unisce “corporatura alla Mussolini” a tratti caratteriali di Hitler ed ha una viscerale passione per la pittura, che ricorda le velleità artistiche del Führer. Andando ad analizzare, non solo in campo iconografico si riscontrano somiglianze, anche fra la gerarchia dei robot e quella nazista. È risaputo, infatti, che Hitler avesse una certa avversione per la burocrazia governativa, e che, acquisito il potere, fece di tutto per circondarsi da un’aura di lontananza carismatica nei confronti degli elementi governativi, delegando gli affari pratici a pochi uomini di fiducia. La sua distanza dalla routine di governo fu sia una necessità strategica, sia un riflesso del suo carattere, con la sua riluttanza ad occuparsi dei “piccoli dettagli”. Questo fece nascere un disordine autorizzato nel sistema governativo; ma nonostante tutto, paradossalmente la tendenziale astensione di Hitler dall’attività governativa rafforzò il suo potere, ponendolo al di sopra delle normali istanze di governo (Kershaw 2008).
Per far questo, si diceva, preferì circondarsi di pochi fidatissimi, cui delegare qualsiasi decisione dietro la propria ombra. Allo stesso modo, Briking-Hitler si circonda di adepti che ricalcano i veri gerarchi nazisti: il primo, copia di Goebbels, ministro plenipotenziario per la guerra, nella figura di Akubon, lo smilzo robot scienziato; il secondo, pseudo-Himmler, comandante della Polizia e ministro dell’Interno del Reich, in Sagure, robot di bassa statura capo delle spie; e il terzo, copia di Göring, il consigliere di politica estera, in Barashin, l’androide tozzo e robusto comandante d’armata.
Inoltre per rendere più veritieri i ricordi di una guerriglia d’altro tempo, simili a quelli del secondo conflitto in Germania, la scenografia della serie è ambientata in Europa. L’ambientazione risulta spostata nel passato, in un mondo anni ’40. I corazzati della “difesa Terra” che affrontano Briking hanno gomme al posto dei cingoli e somigliano ai mezzi reali in uso da Francia e Polonia durante il conflitto. Per dare un senso di destino già segnato, spesso Kyashan corre in soccorso di città invase, ma giunge troppo tardi, ritrovandosi tra le macerie di città occupate dal nemico.
Le allusioni alla storia reale continuano durante tutta la serie. Le bombe aeree utilizzate dall’invasore, ad esempio, sono chiaramente ispirate alle bombe naziste serie V. La stessa bandiera dell’esercito dei robot è un’immagine a tre punte che ricorda vagamente la svastica; i robot stessi non mancano di salutarsi gerarchicamente con il braccio destro alzato e dicendo rivolti al leader: “Heil, Briking!” (Messina 2010). E così via in una miriade di piccoli particolari, tanto che per evitare di battere un ferro ancora caldo, si inventano nomi fittizi, come quello di una non meglio specificata “Nazione Centrale”. Troppo poco per eludere tutti i riferimenti di un’epoca che, più che fantascienza, sembra storia.
Sotto un certo punto di vista, la storia che fa da sfondo alle battaglie di Kyashan rappresenta di fatto una particolare interpretazione di come sarebbero potute andare le cose in una Seconda guerra mondiale parallela. Eppure, il finale di ogni puntata si tinge di malinconia, e raramente di vittoria: Kyashan non salva la Terra, almeno non fino all’ultimo episodio, e anche nel caso in cui riporti vittorie, nessuno attorno è disposto a riconoscergliene il merito. Kyashan resta sempre un essere di cui diffidare, perché potrebbe rivoltarsi contro quella stessa umanità da lui salvata. Paradossalmente invece, è un eroe, ma nel senso più “umano” possibile. Combatte sfruttando la sua forza e le sue capacità di lotta, trae la sua energia dal sole, grazie alla piastra frontale situata nel casco, ma al tempo stesso scaricata tutta l’energia, diventa inerme. È un super androide, nulla di più.
In questo mondo nuovo, fantascientifico, c’è sempre dell’altro, del non detto in queste storie border-line, fra passato e futuro, fra umano e disumano (Ghilardi 2010). E succede che fantascienza e storia s’intersechino in modo coerente, nella speranza che si possa tirare le fila di una distruzione bellica mondiale per capire, ricostruire e infine evitare che accada di nuovo.

L’universo Tomino: due modi d’intendere il reale

Tra l’inizio degli anni ’70 e i primi ’80 vengono trasmesse decine di serie robotiche con alcune costanti: un robot antropomorfo, una forte ripetitività dei combattimento, alieni invasori, finché tutte le varianti possibili non bastano più a decretare il successo di una serie. Squadra che non vince più necessariamente si cambia, e il mondo dell’animazione prontamente si rinnova.
La fine di quest’epoca d’oro viene fatta coincidere in genere col 1979, quando il successo della prima serie diGundam (Tomino 1979) decreta l’inizio di una seconda modalità di pensare la fantascienza: la “scuola realistica” (Ghilardi 2010). I robot mantengono le usuali fattezze antropomorfe, ma nelle storie vengono utilizzate come semplici macchine belliche: i riflettori si spostano dalla macchina all’uomo e lo si analizza freudianamente in tutte le sue complicate sfaccettature, senza volontà di fermarsi per definire l’esatta anima dei protagonisti. È un mutamento per lo più inconsapevole, quello che avviene, ma una volta che se ne avverte il vento, la rotta viene invertita sempre più intensamente dalla propria generazione. Nascono nuovamente decine e decine di serie tv a pestare una nuova strada, chi più chi meno in modo innovativo, ma tutte conscie che la nuova via da seguire è quella che, nel momento attuale, porta al risorgere del successo.
Così, mentre gli anni ’70 vedono flotte di ferraglie, gli anni ’80 le convertono in qualcosa di meno apersonale, puntando l’attenzione su quest’uomo nuovo che si riconosce storicamente in tanto passato tragico, e che da lì parte per ricrearsi un volto nuovo.
Un cambio generazionale, insomma: le radici sono le stesse, l’atteggiamento no.
La svolta in direzione del nuovo realismo si ha nel 1977, anno in cui Tomino firma la regia di Zambot3, la serie che gli farà meritare dagli appassionati l’appellativo di “Macellaio”. È grazie a questa serie che l’autore inizia a scavare un solco che lo allontanerà dalla concezione di guerra diffusa a partire dalla pietra miliare Mazinga.
Già dai primi episodi Tomino inizia a scoprire le carte, introducendo temi fra cui l’odio razziale. Quando infatti le armate aliene Gaizok rivolgono la loro furia contro i civili, si diffonde la voce che attacchino a causa dei Jin, famiglia aliena di cui fa parte il protagonista Kappei e i cui antenati erano sfuggiti al massacro operato dagli stessi Gaizok sull’antico pianeta Biar. Nasce un’ostilità cieca nei confronti della famiglia che in realtà combatte per salvare la Terra. Ancora il tema della lotta a favore di chi non vuole capire. Sembra una sorta di espiazione per non sentirsi più dalla parte sbagliata e compiere la “cosa giusta”, piuttosto che allearsi con la parte malvagia.
Si è già detto che un aspetto che contraddistingue la serie è il realismo e la crudezza con cui sono narrate le vicende: ebbene, da un certo momento della serie, nulla sarà nascosto. In special modo dal momento in cui i Gaizok, sotto la guida del condottiero Killer The Butcher si impadroniscono di alcuni campi di concentramento e li trasformano per la seconda volta in vere e proprie fabbriche di morte; qui, ricorsi ad espedienti per catturare i civili, li deportano per impiantare all’interno dei loro corpi, delle irremovibili bombe a tempo. Le vittime, trasformate in armi umane, involontari portatori di morte, vengono liberati nelle zone più densamente popolate in modo tale che la loro esplosione possa provocare il maggior danno possibile. Il nemico non risparmia neppure i protagonisti e l’intervento di Kappei non riesce ad impedire che due cari amici vengano trasformati in uomini-bomba.
Ricorda i metodi nazisti la cicatrice causata dall’impianto delle bombe: a forma di stella, brilla sulla schiena degli impiantati come una sentenza di morte. La forma e il significato d’esclusione del simbolo ricorda volutamente la stella di David, che gli ebrei erano costretti a portare. Tomino riprende un simbolo forte di ghettizzazione: la stella fa sì che chiunque la veda, sfugga il condannato a morte: è una doppia sentenza, di solitudine prima ancora che di suicida involontario.
Mentre quello delle bombe-uomo diventa l’elemento cardine della serie, il realismo del conflitto bellico prende il sopravvento, portando la serie ad un livello più adulto. Tomino mette in scena la tragedia della guerra, in cui i robot sono macchine da combattimento e non déi invincibili: dove non può arrivare la potenza dei mezzi, arriva la forza e il coraggio dei combattenti.
È un metodo indubbiamente diverso di concepire la guerra attraverso lo specchio deformante di una serie televisiva, più adulto e consapevole dei retroscena che sottendono a scene di combattimento fino allora semplicistiche e nelle strategie belliche.
Ma qual è l’idea da cui muovono serie come Zambot 3 e più tardi Gundam?
Più che di guerra sul campo, sembra parlare di strategie militari, riferendosi all’ultimo conflitto bellico e, in parte, al periodo post Seconda guerra mondiale. A ben guardare, veri e propri studi strategici sono nati come disciplina solo al termine del secondo conflitto mondiale e hanno avuto origine in risposta a particolari tecnostrutture militari e alla struttura bipolare internazionale dei blocchi contrapposti Usa/Urss. Essi si sono sviluppati anche in relazione a fattori contingenti derivanti dai mutati equilibri alla fine della guerra. L’avvento delle armi nucleari e dei missili intercontinentali hanno rappresentato delle problematiche strategiche del tutto nuove e non trattabili secondo approcci propri delle burocrazie diplomatiche militari fino allora utilizzate.
Così, vuoi per effetto delle nuove armi, per confronto ideologico fra Est ed Ovest, per guerre intestine o la decolonizzazione imposta postbellica, si assiste all’affermarsi di strategie indirette, mentre si diffonde una concezione molto più netta del concetto stesso di strategia e sicurezza nazionale. La strategia militare diventa disciplina autonoma, capace di attingere le proprie risorse anche da simulazioni, onde ricreare l’azione e pensarne a mente fredda la reazione, e capace di ricreare senza conseguenze l’intero spettro degli accadimenti possibili. Così, in uno scambio biunivoco, contesti fizionali si interessano alla strategia militare, con un gioco di specchi che si nutre l’un l’altro: l’immaginario evolve nuovamente e si rende più adulto della sua primaria fascia di pubblico..
Se Zambot getta le basi, Tomino rilancia e raddoppia con Gundam, creando sullo sfondo di una trama minuziosissima e orchestrata con sapienza in ogni sua data, un caleidoscopio di personaggi che attorniano il protagonista, ora come non mai non più solo al centro dell’attenzione narrativa, ma uno fra tanti. Il chè non significa “unico buono contro mille cattivi”, ma uomo fra uomini, qualsiasi schieramento tutti questi abbiamo scelto di appartenere, per qualsiasi ragione, conosciuta o svelata lungo la storia. E Tomino scandaglia ogni storia personale dei combattenti e dei civili che popolano il suo mondo, facendo diventare ancora l’uomo vero protagonista, a dispetto del titolo dell’anime, che riporta paradossalmente il nome del solito, gigantesco robot, ora relegato ad oggetto.
Quella di Peter Ray non è una guerra che nasce dal nulla ogni qual volta si presenta l’attacco del nemico: per ogni battaglia combattuta esistono motivazioni, strategie e uomini che orchestrano piani sotterranei, volti ad uno scopo che raramente è quello finale. In breve questa la storia:
La Terra è costretta a inviare la popolazione eccedente nello spazio, in speciali colonie autosufficienti chiamate Side, situate su asteroidi orbitanti intorno al nostro pianeta. La colonia Side 3, nell’anno 68 dell’Era Spaziale, si dichiara Principato di Jion, sotto il Duca Degin Zabi, proclamando la propria indipendenza. Quando il governo terrestre nega agli Zabi l’autonomia politica, Jion si muove allora alla conquista delle altre colonie. Durante un attacco a Side 7, un gruppo di adolescenti si trova suo malgrado a sostituire l’equipaggio della Base Bianca, potente astronave terrestre. Peter Ray, figlio sedicenne del dottor Tem Ray, si trova a pilotare Gundam grazie a poteri esp che aiutano una simbiosi speciale fra pilota e robot. Di fatto la “Guerra di un anno” termina dopo la caduta dell’ultima roccaforte di Jion con la Pace di Granada, con cui tutte le forniture belliche dell’ex Principato passano nelle mani della Federazione Terrestre. La “Guerra di un anno” finisce, ma la pace durerà poco.
Gundam porta sullo schermo la guerra in ogni suo componente e nulla viene lasciato al caso. È attraverso gli occhi di Peter Ray che la storia si dipana: è l’uomo-pilota il vero guerriero del campo, non il robot; non è quindi una semplice trovata spettacolare il fatto che nel finale Peter Ray e Char continuino la loro battaglia corpo a corpo, dopo aver distrutto i propri mezzi.
La serie racconta la guerra civile. I personaggi che la compongono crescono e Peter Ray, da ragazzino che rifiuta la sua condizione di soldato arruolato d’autorità, alla fine della serie è diventato un soldato non per vocazione, ma per senso del dovere: come lui stesso dirà, combatte per avere un domani senza guerra.
Il punto di vista si alterna Federazione e Jion, che pur incarnando il “nemico”, lasciano trasparire le proprie motivazioni, anche quando si tratta di osservare l’ascesa agli estremi della famiglia Zabi o di sondare le direttive dall’aria tutta hitleriana di Guren Zabi. Tomino condensa nella serie tutta la summa di diplomazia, strategia militare e le relazioni internazionali degli ultimi due secoli.
Storie di guerra, di capi militari, di organizzazioni rivoltose, di odio razziale, di ghettizzazione del diverso. Ma fra tanta guerra, il messaggio sostanziale di Gundam è in realtà antimilitarista. ll tempo delle ascese agli estremi sembra essersi esaurito alla fine del secondo conflitto mondiale, con tragici bilanci soprattutto per il Giappone del dopobomba. Nasce una nuova generazione, che racconta e ascolta diversi valori etici e morali: nel rappresentare la guerra, la condanna duramente e mettendo in guardia gli uomini dalle conseguenze che possano nascere dalle proprie mani.
Una piccola digressione fino al 1996: Gundam, nella serietà degli argomenti rimanda ad un’altra serie di culto: Neon Genesis Evangelion (Anno 1996). Anche qui ritroviamo tattiche di fine strategia, gerarchie dell’oscura Nerv e un pilota in contatto col robot tramite una inquietante empatia. Eppure i tempi sono cambiati: tutti i rimandi storici ai conflitti del XX secolo restano nascosti in un angolo della memoria, che lascia fuoriuscire immagini spontanee come rimandi incoscienti.
La Seconda guerra mondiale resta nei ricordi di una generazione precedente, da Mazinga a Gundam. Oltre gli anni ’80, la memoria confonde confini e priorità: sono lontani i tempi in cui l’animazione viveva di spirito pedagogico verso un pubblico che doveva conoscere il passato, per non dimenticare.

… e l’universo Miyazaki: passato e futuro prossimo

In un periodo in cui vanno per la maggiore storie truculente e fantascienza, si affaccia sull’orizzonte giapponese quello che sarebbe stato acclamato come il “Disney giapponese”: Hayao Miyazaki.
È un mondo di fiaba, quello che sottende le sue storie, dal tratto delicato ed essenziale e un pubblico tendenzialmente giovane quello cui si rivolge. Eppure l’opera di Miyazaki non si risolve tutta qui, tutt’altro: c’è un filo conduttore che lega il mondo oscuro del Gundam o di Tomino a quello pastellato dello Studio Ghibli, ed è il filo rosso della guerra.
Guarda al passato il lungometraggio Porco Rosso, perfetta cartina di tornasole per cogliere alcuni temi portanti della poetica di Miyazaki. Sotto le vesti del divertissement, infatti, ecco spuntare il suo lato più politico e libertario, incarnato nell’anarchico Porco Rosso, ex pilota dell’aviazione italiana, disertore, ora eroe senza tetto né legge, trasformato da chissà quale incantesimo in un maiale antropomorfo, che rifiuta ogni forma di omologazione.
La scelta di ambientare la vicenda tra le schermaglie aeree di piloti e pirati – entrambe creature estraniate dalla società e che rispondono a un codice d’onore a parte – la dice lunga su come Miyazaki scelga il ruolo di osservatore distaccato ma non imbelle di fronte a una realtà che non gli appartiene.
L’ombra del secondo conflitto dunque vive del fascismo italiano, raccontato sfruttando la diversa atmosfera del nostro Paese sotto il regime rispetto a quello tedesco, come quest’ultimo condannato ma più facile alla presa in giro, vuoi per il carattere italiano, che per l’ambivalenza di comportamento della gente nei confronti dei capi.
L’amore per l’aviazione di Miyazaki trova il suo posto. Ma non è un aspetto del tutto personale dell’autore, è anche un tratto distintivo delle due guerre, che ricorre spesso nella visione imperialistica risorsa per dominare il nemico. Il fascismo fa suo questo mito e contribuisce ad amplificare le imprese aviatorie, perché risponde ad un’istanza di ascesa e di liberazione, di combinazione fra sfida solitaria e accumulo di saperi e abilità collegiali (Mosse 2005).
Allo stesso modo del mito italiano del tempo, Porco Rosso duella nei cieli con Curtis, ritrovando quel senso perduto del carosello cavalleresco, in una variante che mescola il culto antico dell’eroe e le sfide della moderna impresa. L’aviazione è modernità di sguardo, ma è anche senso di dominio, di potenza e di invulnerabilità e il fascismo la coltiva in modo sistematico (Gibelli 2005).
“Non si può essere fascisti senza essere un poco aviatori”. Così la figura di Porco Rosso acquista un’ambivalenza del tutto particolare, in bilico fra la figura di un pirata dell’aria che questo sogno cavalca consciamente, nello spirito italiano del tempo, e quella di chi quel regime disprezza, combattendolo con le stesse armi immaginifiche che propone.
Un’opera tutt’altro che infantile, quindi, quella che il maestro giapponese ci propone. Le due letture privilegiate della metafora del maiale, inoltre riguardano due aspetti diversi del personaggio, uno pubblico e l’altro privato. “Porco Rosso” può leggersi, infatti, come insulto fascista, dal momento che la posizione politica di Marco è chiara nella sua scelta contro il regime, che lo ha per questo messo all’indice, riducendolo ad essere un reietto cacciatore di taglie. D’altra parte, nota tutta di spirito nipponico, Marco si sente un maiale per essere l’unico sopravvissuto alla battaglia aerea in cui sono morti tutti i suoi compagni, fatto considerato disonorevole dai giapponesi.
Tirando le somme: che si tratti di Italia degli anni ’20 o di un Giappone contaminato dal fantasy, Miyazaki riesce al solito a veicolare il suo messaggio senza appesantire la narrazione e ci regala è una pagina tutt’altro che minore del grande libro delle sue visioni, in grado di stupire al pari di quanto sanno insegnare.
Le stesse chiavi di lettura possono essere usate per Conan, il ragazzo del futuro, come per una voluta continuità di discorso che l’autore ha necessità di scandagliare. Le tematiche sono quelle care all’autore: l’amore per la natura e per il volo, come le aperte distese di mare fanno da corona visiva ai temi di sempre, antimilitaristi e di condanna alla guerra. Nel 2028, dopo le disastrose conseguenze della Terza Guerra Mondiale, non esiste più nulla dell’opera millenaria dall’uomo, se non la città d’Indastria, che sembra non avere imparato la lezione e può condurre solo ad esiti negativi con la sua anima guerriera e le sue fabbriche di morte.
Qui la scienza viene guardata con occhio critico, giudicata come il possibile responsabile di nuove future distruzioni, se non controllata. Il dottor Rao è uno dei personaggi più ambigui della serie, rivelandosi uno degli scienziati che lavorarono al progetto della bomba magnetica e ora ossessionato dal rimorso. Lungo tutta la storia si adopera per compensare al male fatto, opponendosi disperatamente affinché l’energia solare, l’ultimo segreto tecnologico di cui è depositario, finisca nelle mani sbagliate. Anche il consiglio degli scienziati di Indastria ha una connotazione negativa: nessuno degli scienziati è malvagio, tuttavia vivono arroccati nella Torre del Sole, avulsi dalla realtà umana che, senza volerlo, contribuiscono a soggiogare tramite il lavoro. Nella loro torre d’avorio non si accorgono delle macchinazioni di Lepka per il potere, né del fatto che la popolazione di Indastria vive in condizioni di schiavitù, vessata dai seguaci del dittatore, che sempre dalle parole del dottor Rao, è “l’ultimo rimasto di quelli che distrussero il mondo”.
Alla fine, come da buona tradizione del panorama fantastico di Miyazaki, la realtà incrocia la fantasia, e si macchia di ricordi passati, intercalati con panorami ancora da venire. È lo stesso Miyazaki, intervistato, ad ammettere: “Avevo immaginato una Indastria molto simile alla Russia vista dagli americani e a una Higharbor come un’America dove l’ordine sociale era stato perduto”.
A metà fra cinismo e candore, Miyazaki mostra un futuro così come potrebbe essere, in una sorta di revival al contrario. L’autore rielabora definitivamente il lutto della bomba atomica. I funghi nucleari hanno ridisegnato il mondo di Conan e, dopo il terribile conflitto mondiale si è instaurata una dittatura di tipo industriale. Sarà la nuova generazione, quella che Conan rappresenta, a riprendersi il futuro, a lasciarsi indietro per sempre l’orrore della bomba nucleare e a iniziare un mondo nuovo.

Il ladro e il pirata: due antieroi agli antipodi

Sembra doveroso, parlando di anime e della Seconda guerra mondiale, scorrere l’occhio anche su quanto sia trasformato, in conseguenza ai fatti storici, il concetto di “eroe” delle nuove trame. Se è vero che cambia il concetto del nemico di ogni protagonista d’avventura e riecheggia atteggiamenti militari del Terzo Reich, reiventando il “nemico pubblico”, lo stesso eroe necessariamente si trasforma. Non più un supereroe in stile americano, tutto d’un pezzo, diventa sempre più umano e complesso, tanto da mettere spesso in dubbio la sua integra positività.
L’eroe del periodo realistico, dalla seconda metà degli anni ’70 in poi, si reinventa spesso come chi è uscito da un lungo percorso di formazione per percorrere una via che lo riscopre eroe al contrario. Contro ogni società costituita, devoto ad una nuova lealtà, non la ostenta nelle parole e talvolta neppure nei fatti, dichiarando implicitamente che il fine giustifica i mezzi, anche quando questi non siano quelli propri di un eroe da vocabolario.
L’antieroe vive di strategia e cervello e combatte ciò che sente contro sé stesso.
A ben guardare, è l’ennesimo insegnamento che il popolo del Sol Levante ha ricavato dall’esito della Seconda guerra mondiale, quello di svincolarsi dai preconcetti e combattere anche il potere cui il suo stesso popolo appartiene, perdendo piuttosto la lealtà per la propria patria, sempre importantissima agli occhi di un giapponese, pur di arrivare ad una giustizia più alta. Il cambio di direzione del nuovo eroe ha una valenza ancora più forte, venendo da chi, in tempi recenti, ha sempre immolato la propria vita per la patria.
Per capire questa tipologia di eroe fuori dagli schemi, ne sono stati presi due: l’uno, antieroe tipico e romantico, colui che combatte il sistema per senso di giustizia, l’altro, istrionico per natura, colui che si ritrova spesso a compiere azioni buone senza cercarle, nel suo essere un “outsider” egoista della società. I due non possono essere più lontani l’un l’altro, ma hanno in comune, oltre l’essere due icone conosciute in tutto il mondo, la loro presa di distanza dal “gregge”, senza farsi sfuggire i mille riferimenti al Terzo Reich.
Il primo è un particolarissimo tipo di pirata: Capitan Harlock (Matsumoto 1978).
Harlock è un ex ufficiale della flotta terrestre, che in seguito ad eventi oscuri accadutigli da giovane ha disertato per diventare un pirata dello spazio. È un anticonformista, incapace di adattarsi al nuovo stile di vita assunto dai terrestri e deciderà di diventare uno space-pirate rinnegando la sua appartenenza alla società per mantenersi diverso da un’umanità pigra che ormai ha perso il gusto di vivere. In uno dei primi episodi, inedito in Italia, Harlock invita Tadashi a sparare alla bandiera della Confederazione Terrestre in segno di rifiuto del sistema sovrannazionale: solo giurare alla bandiera pirata è l’unica via che realmente garantisca la libertà dell’individuo.
È un comandante archetipo, che guida la sua ciurma, conosce ogni potenzialità dei suoi uomini e sa quando è il momento di osare oltre il ragionevole o ritirarsi in attesa del momento migliore per colpire. Matsumoto dimostra qui la sua passione per la storia militare, mostrando ogni battaglia sotto l’ottica di tecnicismi bellici, piuttosto che puntare solo sulla spettacolarizzazione dello scontro in sé. La stessa astronave Arkadia porta i colori della Marina giapponese, come richiamo ad antiche guerre combattute realmente, e ora rivissute fra i cieli stellati.
La ciurma stessa è composta da un’umanità variegata, che non ha saputo adattarsi alla vita normale della società cui appartiene. Tuttavia, mentre tutti loro, alla fine della storia, troveranno lo spirito necessario per ricominciare una vita nuova sulla Terra, non esiste “normalizzazione” per Harlock. Assolto il suo compito morale di difendere la Terra, ripartirà per i cieli sconfinati sulla sua astronave (Messina 2010).
L’opera di Matsumoto presenta un antieroe che, da qui in poi, sarà sempre più presente nell’animazione giapponese: non solo la tipologia piace perché romanticamente controcorrente, ma perché indica un senso nuovo per combattere, nel rispetto di una nuova moralità, e contro un nuovo nemico, più subdolo perché nascosto e organizzato agli alti vertici della politica mondiale. Come in Gundam, anche Harlock parla di Confederazione terrestre come principale fautore della gerarchia dominante: non più diatribe fra nazioni, ma un’unica faida fra popolazione dalla coscienza assente e potenti detentori totali di un sistema politico mondiale. La summa delle conseguenze del secondo conflitto qui è rappresentata nel sottobosco della trama: la gerarchia militare dalle sembianze oscure, la lotta fra le razze, le strategie militari, sono tutti rimandi ad un passato storico che resta in sordina, forse perché i toni della serie si presentano già molto seriosi e lanciare accuse precise avrebbe sforato quel senso di evasione necessario ad un cartone animato. Meglio bruciare la bandiera di un’ipotetica Confederazione terrestre, dunque, senza scegliersi una fazione o l’altra, con dichiarazioni troppo nette.
Quello che non può il romantico Harlock, riesce invece a fare uno dei ladri più conosciuti al mondo: Lupin III (Punch 1971). La prima serie ha un tono quasi noir e Lupin ha realmente l’aria da eroe oscuro; ma nelle successive serie, viceversa, il tono diventa mano mano più brillante e la vis comica ha il sopravvento.
È proprio in quest’ultima ottica che Lupin può permettersi di deridere qualsiasi personaggio incontri sulla sua strada. D’altra parte, quale scenario migliore di una serie tv che, per eredità del presunto nonno francese, non si limita a vivere in Giappone, ma compie le sue scorribande in tutte le nazioni della vecchia Europa, per ritrovare spunti storici e guardare il passato tramite una personalissima lente deformante. Fra tutti è Hitler quello che viene preso di mira più di ogni altro: la sua figura è sbeffeggiata più volte, tradendo una volontà dissacratoria nel rispetto di una forza che ancora incombe spettrale in incubi futuri.
Così succede nel terzo episodio seconda serie, L’eredità di Hitler, in cui Lupin si reca a Berlino per rapire l’ormai anziano (e non meglio definito) segretario di Hitler, l’unico che sa dove si trovi nascosta l’eredità che lasciò il dittatore. Lupin, ricostruendo lo studio privato di Hitler, in cui sovrasta un immenso quadro dello stesso, creando un circolo ipnotico fra quadro del reale e maschera del falso Hitler, impersonifica i suoi panni e risveglia la memoria del segretario. Quando però, attraverso varie peripezie e inseguiti dall’onnipresente Zenigata, trovano il tesoro di Hitler, scoprono che in realtà questo è formato solo dalle sue pagelle scolastiche, che riportano voti tutt’altro che lusinghieri.
Oppure, facciamo l’esempio di un lungometraggio: La pietra della Saggezza.
Jigen e Lupin rubano una misteriosa pietra dalla piramide di un faraone e la portano in Giappone, dove viene però rubata da Fujiko, che lo consegna a un personaggio misterioso: si tratta di Mamoo, la cui isola è abitata da cloni dei più noti personaggi storici, tra cui Hitler e Napoleone.
Anche qui il riferimento ad Hitler è poco più di una scusa per dare inizio ad una trama in modo bizzarro, ma la curiosità del film sta in un particolare che dimostra quanto a fondo gli autori scavino nella vita del dittatore, alla ricerca di “chicche” da disseminare come perle curiose per chi riesca a coglierle. In questo lungometraggio dedicato alla serie, infatti, Lupin guida dapprima una Mercedes-Benz SSK del 1928 modificata (sembra che Lupin ci abbia fatto montare un motore di una Ferrari) per dopo passare alla sua variante ancora più sportiva, la SSKL, dove L sta per Light. La curiosità sta nel fatto che la SSK pare sia appartenuta anche ad Adolf Hitler.
In effetti Hitler era conosciuto per essere un grande appassionato di automobilismo e adorava quest’auto. Qui Lupin III, come per uno smacco voluto nei confronti del dittatore, dichiara sprezzante che alla SSK manchi qualcosa a causa della lunga e alta capote. Sostituisce quindi il motore con quello di una Ferrari modello 12 valvole così che la capote possa essere più bassa. Ma ancora il risultato non lo soddisfa, così reinstalla l’originale capote, tenendo il motore Ferrari. La SSK con un motore Ferrari, a sua detta l’auto dei sogni di chiunque, eccetto che del dittatore.
L’antieroe Harlock, che vagamente indica un passato da non seguire senza addentrarsi in riferimenti storici, è ben diverso dall’antieroe Lupin, che si permette di sbeffeggiare il dittatore tedesco, alla stregua di un Charlie Chaplin, quando gioca a palla col mondo nella famosa scena de Il grande dittatore. Per Lupin non si tratta di mostrare strade: è antieroe proprio perché non si cura di nulla, e tanto meno di figure che hanno terrorizzato il mondo intero. Per far questo, usa escamotages con rimandi poco visibili ma puntuali, per metterne a nudo piccole manie, deridendo i motivi che hanno portato alle vittorie dandone il merito a pietre miracolose e poco più.
D’altra parte è un fatto storico che Hitler non nasce come uomo brillante, anzi come individuo che inizialmente nessuno crede capace di arrivare lontano: nel 1907 e nel 1908 viene respinto agli esami di ammissione all’Accademia di Arti grafiche di Vienna; nel 1913 scappa a Monaco per sottrarsi alla chiamata di leva nell’esercito austriaco, che ad ogni buon conto lo avrebbe poi dichiarato “di costituzione troppo debole”; arruolato dopo nell’esercito bavarese, non viene ritenuto idoneo alla promozione perché “non in possesso della necessaria capacità di comando”; anche quando inizia la sua ascesa, chi lo vede parlare alle folle, lo descrive come oratore da birreria (Kershaw 2008). Quale altro segreto, quindi, nell’ottica di Lupin, può avere da nascondere gelosamente se non delle pagelle scolastiche compromettenti?
Il sarcasmo usato da Lupin per sminuire il nemico per eccellenza è pari a quello di banalizzazione che si attua al concetto di guerra, processo che si venne a creare al tempo stesso in cui ancora si combatteva, per riuscire ad esorcizzare l’incubo, ridisegnandolo minore di quanto in realtà ognuno era profondamente cosciente fosse. Il processo di banalizzazione di per sé non innalza né placa le menti. Piuttosto dà ad uomini e donne la sensazione di poter padroneggiare gli eventi.
Deridendo Hitler, Lupin si impadronisce di un ricordo troppo forte per essere guardato in faccia e deformandolo, lo riduce in frantumi banalizzando l’uomo, la parte più nuda e anonima del dittatore.
Di fronte ad una minaccia che va oltre la capacità di comprensione e di possibilità di azione, gli uomini preferiscono guardare altrove, sublimando la loro paura per un generale senso d’impotenza (Mosse 2005). A questo punto, la sola arma possibile è un sarcasmo denigratorio, che spoglia di troppa serietà il nemico, riportandolo a quello che realmente è: l’uomo, con tutte le sue fragili manie, che avvenimenti fortuiti, camuffati da chissà quale magheggio, hanno aiutato ad essere ciò che è stato.
Con un sorriso beffardo, l’antieroe Lupin ci mostra come fare.

Conclusioni

Perché Tokyo è la principale mira di tutti i popoli dell’Universo?
Probabilmente perché dopo la Seconda guerra mondiale, non soloTokyo è cambiata ed ha paura, ma è cambiato il suo nemico ed è cambiato il suo eroe.
L’animazione è un semplice media creato da uomini, che, nel Giappone del boom cinematografico, sono ancora troppo legati al passato prossimo per non esserne influenzati.
A volte è un percorso cercato: una volontà di ricordo verso un pubblico giovane che non ha vissuto la guerra, e che adesso può riviverla, senza conseguenze per fortuna, raccontata tramite gli schermi blu. Poco cambia se questa paura si tinge di tinte tetre o sornione, quello è solo la firma dell’autore: l’importante è innescare la curiosità di conoscere. L’ossessione di Tokyo per un attacco oltremare e oltrecielo ha il volto della bomba atomica o di un popolo invasore, confuso se somigliare più al vecchio nemico-America o all’ex alleato-Germania.
Altre volte è l’inconscio che crea nuovi modi di narrazione ed eroi che non credono più alle favole. Il realismo diventa un modo di raccontare quasi necessario: la guerra parte da scontri ingenui fra grandi robot, che si concludono con potenti esplosioni atomiche e si ritrova poi a fare i conti con complicatissime strategie che vivono di sotterfugi e spie infiltrate, a cavallo fra guerra combattuta e Guerra fredda. Così, che il robot sia Mazinga o Gundam, poco cambia: i toni sono differenti perché si sono evoluti nel tempo, ma le radici restano le stesse che nascono dagli anni dell’ultimo scontro bellico.
La Seconda guerra mondiale ha modificato il nemico, che somiglia sempre più allo stereotipo nazista: il nuovo nemico è carismatico, ha un’aura che lo rende intoccabile, che sa soggiogare con uno sguardo. È una sorta di fascinazione del potere (e del male) che nazismo e fascismo hanno cavalcato come prima e più importante arma di comunicazione verso il proprio popolo. E allo stesso modo non esiste più l’eroe buono e basta: ognuno ha la sua storia, le sue luci e le sue ombre. Alla fine è l’uomo il vero protagonista: è lui che può scegliere la strada giusta o sbagliata e ravvedersi, grazie alla complessità psicologica che il realismo della guerra gli ha imposto.
Così Tokyo resta sul “chi vive”, nella sua ossessione post-bellica di una guerra e una catastrofica sconfitta che per nessun motivo deve ripetersi.

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