Oggi si fa un gran parlare, in Italia, di ricambio generazionale. E in questi giorni non potrebbe che essere così, visto che Matteo Renzi, il “rottamatore di vecchi politici e di un’intera classe partitica più che politica”, si sta affermando quale nuovo segretario del Partito Democratico. Eppure sono molti i dubbi che nascono al riguardo. Siamo certi che basti un individuo per risolvere l’atavico problema italiano della gerontocrazia?
Ci sono tanti dubbi anche perché Renzi è stato messo da mesi a rosolare a fuoco lento dai suoi stessi compagni di partito e pare aver accumulato più rabbia e frustrazione che non argomenti nuovi per un Paese vecchio. In bocca all’attuale sindaco di Firenze, il ricambio generazionale sembra esser diventato uno slogan da ripetersi come un mantra, quasi una preghiera scaramantica, invece di diventare il punto di partenza per una visione del futuro.
Ciò ha prodotto, come principale effetto, quello di svuotare di contenuti l’espressione stessa. Più che un “yes we can” potremmo parlare di un “yes we must”, altrimenti i voti non si acchiappano.
Le rivoluzioni o si fanno subito oppure vengono fagocitate, assimilate e poi sfruttate da quel sistema che volevano sconfiggere. Renzi dovrebbe sapere bene che non si può essere al tempo stesso parte del sistema e mutarne drasticamente regole ed establishment. La sua è una scommessa persa. E proprio per questo motivo l’avvento di Renzi difficilmente produrrà effetti epocali nel Belpaese. Il cambio della classe dirigente può nascere solo dal basso, dalla società civile e dalle sue articolazioni. La rivoluzione di un Paese asfittico deve passare obbligatoriamente attraverso un cambio di passo che provenga dai singoli universi che compongono la comunità italiana: cioè dal mondo imprenditoriale, da quello sindacale, scolastico, universitario, corporativistico. Perché ognuno di questi mondi parla con i propri linguaggi e secondo i propri interessi: questo multilinguismo non può essere parlato da una sola persona.
In politica, oggi, da più parti si assiste a una resa dei conti. Si guardi all’aspro scontro di Renzi contro Massimo D’Alema e l’addio melodrammatico nel campo avverso di Alfano e Berlusconi. Ma siamo sicuri che sia sufficiente un cambio anagrafico per risolvere i problemi dell’Italia? Attualmente, molti degli esponenti di punta del Sessantotto rivestono ruoli di primo piano in settori quali la politica, il cinema, la cultura, l’università, gli enti pubblici: eppure la tanto decantata rivoluzione non è mai avvenuta, anzi l’Italia sta peggio di prima rispetto al loro avvento. Hanno agognato e lottato per il potere, convinti che questo permettesse loro di cambiare il sistema, e invece quest’ultimo li ha irretiti, cambiati, comprati e plasmati, peggiorando i difetti della generazione che li aveva preceduti. Più che un cambio di carte d’identità, quindi, sarebbe auspicabile un cambio estremo di mentalità e di competenze.
Si pensi, ad esempio, al mondo dell’impresa e del lavoro. Secondo un’indagine di Astra Ricerche per Manageritalia, il 71% delle aziende italiane non ha politiche di gestione del passaggio generazionale; solo il 14% ne ha e il 15% pensa di introdurle. Una valida organizzazione del lavoro quindi permetterebbe a tutti, indipendentemente dall'età, di esprimersi al meglio (88%), la presunta minor produttività dei sessantenni è frutto di una concezione arcaica del lavoro (87%) e molti problemi sarebbero risolti da un sistema retributivo legato al merito e ai risultati raggiunti, piuttosto che all'età (79,1%). Invece, in un colpo solo vediamo morire aziende e perdere occasioni di nuova occupazione.
Il Paese necessita di uno scossone, di uno choc che sia trasversale e che abbracci tutta la Penisola. La classe manageriale ha fallito ad ogni livello. Telecom, Parmalat, Alitalia, Cirio, Ilva, Olivetti, Monte dei Paschi di Siena (per elencare solo alcuni casi emblematici) sono le istantanee di un lento e inesorabile declino. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale la classe dirigente consegna ai propri figli un Paese più povero non solo economicamente, ma anche socialmente. C’è chi si arrovella perché si stanno esaurendo le risorse offerte dall’ambiente; personalmente, mi spaventerei molto di più perché si sta dilapidando un’importante eredità da passare ai nostri figli: la speranza e la fede nel futuro.
(Fonte: La voce della Russia)
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