venerdì 6 luglio 2012

La scomparsa dei responsabili..... lascivi ed egoisti




La scomparsa degli adulti,  
di Giovanni Cucci

Indice
  • Una società di eterni adolescenti?
  • La difficoltà di crescere nella società tecnologica
  • La Sindrome di Peter Pan
  • La scomparsa del padre
  • I Proci, figli di un padre assente
  • Il compito di diventare adulti
  • La necessità di un modello
  • Riprendere l’arco di Ulisse
  • Note al testo

- Una società di eterni adolescenti?

Si resta sempre più colpiti dall'appiattimento generazionale che vede ragazzi, giovani e adulti accomunati da una medesima dinamica: nel modo di vestire, parlare, comportarsi, ma soprattutto nelle relazioni e negli affetti essi rivelano spesso le medesime difficoltà, al punto che risulta difficile comprendere chi di essi sia veramente l'adulto. Desta altrettanta preoccupazione la sempre più diffusa fuga dalla responsabilità, che porta a procrastinare indefinitamente le scelte di vita, illudendosi di avere sempre intatte, di fronte a sé, tutte le possibilità.
Un'indagine dell’Istat, compiuta nel 2008 (e dunque antecedente alla grave crisi che ha purtroppo portato alla disoccupazione milioni di giovani e di adulti), rilevava che più del 70% delle persone di età compresa tra 19 e 39 anni vive ancora con i genitori. Il motivo è anche, ma non solo, economico, poiché in questa fascia vi sono persone con un lavoro stabile e un reddito che consentirebbe di vivere autonomamente. Le medesime ricerche mostrano inoltre, in Italia ma anche in altri Paesi dell’Europa, un aumento preoccupante di giovani/adulti che stazionano in una sorta di «limbo», senza scelte e senza prospettive. Questa situazione riguarda una fascia di età sempre più ampia ed estesa, al punto da essere ormai classificata come categoria sociologica, «la generazione né-né».
Ma soprattutto, una tale condizione non viene per lo più neppure vissuta come problematica: «Tra i 15 e i 19 anni ci sono 270 mila ragazzi che non studiano e non lavorano (il 9%): la maggior parte perché un lavoro non lo trova; 50 mila perché della loro inattività ne fanno una scelta; 11 mila, poi, proprio perché di lavorare o studiare non ne vogliono sapere ("non mi interessa", "non ne ho bisogno"). Stessa tendenza nei dati relativi ai giovani tra i 25 e 35 anni: un milione e novecentomila non studia e non lavora; vale a dire, quasi uno su quattro (il 25%). Un milione e duecentomila di questi gravitano nella disoccupazione (ma tra loro c'è chi dice di non cercare bene perché è "scoraggiato", o perché "tanto il lavoro non c'è"). Settecentomila sono invece gli "inattivi convinti": non cercano un lavoro e non sono disposti a cercarlo [ ... ]. Una recente indagine spagnola, firmata dalla società Metroscopia, rivela che il 54% dei giovani di età compresa trai 18 e i 35 anni dichiara di "non avere alcun progetto su cui riversare il proprio interesse o le proprie illusioni"»[1].
A questa situazione di stallo e confusione si accompagna un’altrettanto grave crisi dell’autorità e della normatività che, come si vedrà, costituiscono un compito educativo irrinunciabile. Tale compito viene disatteso per molti motivi: perché coloro che dovrebbero attuare la norma, gli adulti, non ne hanno la forza, hanno paura di apparire impopolari o, non di rado, perché essi stessi non vi credono più, riscontrandovi soltanto una fonte di conflitto e difficoltà.
Ma l’aspetto forse più triste di questa carenza è che la norma che l’adulto dovrebbe porre viene a mancare perché talvolta gli stessi educatori e genitori si trovano alle prese con i medesimi problemi affettivi, relazionali, perfino di dipendenze. Da qui la crisi profonda dell’adulto, con il rischio della sua scomparsa: «Se un adulto è qualcuno che prova ad assumere le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole [ ... ], non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società [ ... ]. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare dove si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale»[2].
Una motivazione possibile, all’origine di questo amalgama indifferenziato, può essere individuata nel prolungamento dell’età di mezzo, propria degli ultimi decenni e accentuatasi a causa dell’odierna crisi economica, che non invoglia a mettere in conto spese e fatiche ulteriori per intraprendere un’incerta situazione futura.
Anche la nuova cultura tecnologica contribuisce a confondere il confine tra realtà e fantasia, che è la caratteristica tipica del bambino. Lo aveva compreso con lucidità già Johan Huizinga nel lontano 1935: «[L'uomo moderno] può viaggiare in velivolo, parlare con un altro emisfero, procurarsi leccornie mettendo pochi soldi in un automatico [ ... ]. Preme un bottone, e la vita gli affluisce incontro. Può una tale vita renderlo emancipato? Al contrario. La vita per lui è diventata un giocattolo. C’è da stupire che egli si comporti come un bambino?»[3].

- La difficoltà di crescere nella società tecnologica

La cultura detta «tecnologica» si impone oggi, oltre che per la diffusione di strumenti sempre più sofisticati, soprattutto per la possibilità di pianificare l’esistenza in una maniera inconcepibile per le generazioni precedenti[4]. E, questo, soprattutto a livello di natalità. In tale campo hanno fatto la loro comparsa termini usati sempre più spesso, fino a diventare slogan riassuntivi di una concezione di vita: «procreazione responsabile», figli «voluti e desiderati», persino «programmabili».
Sembra così essersi realizzato il sogno, auspicato da Freud sul finire del XIX secolo, di poter separare il concepimento dalla pulsione erotica: tale separazione non ha tuttavia favorito, come sperava il fondatore della psicanalisi, il «trionfo dell’umanità»[5]. Essa ha portato piuttosto a un impoverimento psicologico e affettivo, quale mai si era conosciuto sinora, una vera «rivoluzione antropologica», per riprendere il sottotitolo di un libro di Marcel Gauchet.
Fin dalla nascita si è infatti accompagnati dall’ansia che in fondo si poteva non essere desiderati e che ci si deve in qualche modo «meritare» il fatto di essere venuti al mondo, corrispondendo alle forti aspettative dei genitori. Come osserva Gauchet: «Da questo può derivare l’invincibile fede nella propria buona stella, o, all’opposto, il senso dell’irrimediabile precarietà della propria esistenza. Rispetto a quel desiderio che lo ha sottratto al comune destino, manterrà spesso un’irriducibile inquietudine [...]. Un figlio sempre più desiderato in quanto sempre meno figlio della natura; più è il frutto di un artificio, quale che sia, e più è ciò che deve essere, ossia il figlio dei suoi genitori (o del suo genitore)»[6].
Un altro aspetto paradossale di questa incrementata potenzialità pianificatrice è che all’oculata selezione del nascituro corrisponde sempre meno quell’attenzione affettiva ed educativa indispensabile per educarlo, renderlo adulto e responsabile. Il figlio si trova invece soffocato dalle attenzioni di genitori che, dopo averlo preventivato da lungo tempo, vedono in lui la possibilità di realizzare le loro attese, spesso anche di riempire il loro vuoto e la loro incompiutezza.
Il bambino rischia così di essere ben presto trattato come un mini adulto, soprattutto qualora venga cresciuto da un genitore single: in questo caso forte sarà la tendenza a riversare sul figlio attese e aspettative che invece dovrebbero essere rivolte al proprio partner, dando origine a quelle perverse diadi in cui il figlio o la figlia sono chiamati a diventare rispettivamente «vicemarito» «vicemoglie» del proprio genitore, impedendosi di vivere la tappa infantile e di figliolanza della propria vita, due condizioni essenziali per la maturità psichica, cognitiva e affettiva[7].
La «sindrome del figlio unico», notata in altra occasione[8], sembra confermare questa inquietudine inconscia, il disagio di far fronte alla polarità desiderio/rifiuto dei genitori. Egli si trova così schiacciato dalle attese dei genitori, alla stregua di un giocattolo chiamato a compensare le carenze degli adulti.
Tutto ciò contribuisce a rendere quel figlio incapace di diventare adulto, incapace soprattutto di sapere cosa veramente voglia dalla propria vita. Una volta diventati grandi, quel bambino, quella bambina ricercheranno infatti l’infanzia perduta che non hanno mai avuto, rifiutandosi di crescere.

- La Sindrome di Peter Pan

Il rifiuto di crescere è un fenomeno in espansione anche dal punto di vista generazionale, tanto da occupare l’intero arco della vita dell’uomo. Questa situazione di «stallo interiore», di impossibilità di passare alla fase adulta della vita, è stata recentemente ratificata anche come categoria psicologica, nota con il termine di Sindrome di Peter Pan, ad opera dello psicologo junghiano Dan Kiley. Egli si ispira al celebre romanzo di James Barrie Peter and Wendy,pubblicato nel 1911, anche se poi ha acquistato maggiore celebrità il titolo scelto per la rappresentazione teatrale, del 1904 (Peter Pan o il ragazzo che non volle mai crescere).
La scelta del personaggio, protagonista del romanzo, è di per sé significativa. Peter era anche il nome del fratello di James, che morì quattordicenne in un incidente di pattinaggio, mentre Pan nella mitologia greca era il figlio di Ermes e della figlia di Driope, che lo rifiutò, abbandonandolo al suo destino[9].
Come nella mitologia e nel romanzo di Barrie, anche nella sindrome di Peter Pan alla base della condizione instabile ed errabonda di questo personaggio si trova per lo più l’assenza di relazioni affettive importanti, in particolare con i genitori, visti come freddi e distanti o incapaci di autorevolezza[10]. In tal modo, chi è affetto da questa sindrome ricerca la propria infanzia perduta, comportandosi come se il tempo si fosse fermato, assumendo per tutta la vita la volubilità psichica e affettiva propria dell’adolescenza, imprigionato «nell’abisso tra l'uomo che non si vuole diventare e il ragazzo che non si può continuare ad essere»[11].
E, questo, anche se nel frattempo ci si è sposati e si è diventati genitori di figli con cui si finisce per entrare in concorrenza, imitandone atteggiamenti e modi di pensare. Come confessava una ragazza sconsolata: «Mio padre non fa altro che correre dietro alle mie amiche e poi chiede di potersi confidare con me»[12].
A loro volta i figli, sentendosi messi sullo stesso piano dei genitori, si atteggiano ad adulti: in questo modo nessuno dei due vive più le responsabilità e le peculiarità della propria tappa di vita; come in un gioco perverso, esse vengono scambiate, rovesciando pericolosamente il significato della sconfitta edipica: «Se si guarda attentamente al contenuto della TV, vi si può trovare una documentazione abbastanza precisa non solo della nascita dei bambino "reso adulto", ma anche di quella dell'adulto "reso bambino" [ ... ]. Salvo rare eccezioni, gli adulti, alla televisione, non prendono seriamente il loro lavoro, non allevano bambini, non fanno politica, non praticano alcuna religione, non rappresentano alcuna tradizione, non hanno capacità di pensare al futuro o di formulare seriamente dei programmi, non sono capaci di parlare a lungo, e non sanno mai evitare atteggiamenti degni di un bambino di otto anni»[13].
Nell’attuale società «liquida» la fase adulta rischia così di ridursi a un’espressione anagrafica, senza più compiti specifici che la caratterizzino e soprattutto la differenzino dalle fasi precedenti della vita, conferendole un’identità: essere adulti era sinonimo di essere maturi, appunto non più bambini, capaci di assumersi responsabilità. Queste caratteristiche appaiono sempre più rare, al punto che «non è eccessivo parlare di una liquidazione dell’età adulta. Siamo al cospetto di una disgregazione di ciò che significava maturità»[14].

- La scomparsa del padre

La continua popolarità e attualità di Peter Pan non dice soltanto di un disagio nella crescita. Questo personaggio è anche una forma di protesta nei confronti della fuga degli educatori, di coloro che possano rendere bello, anche se difficile, il compito di diventare adulti, lasciandolo solo: «Se Peter Pan è il simbolo di un fenomeno che è cresciuto sempre più negli ultimi cento anni, cioè l’ostinata volontà di rimanere bambini, Peter Pan ci dice anche qualcosa di più inquietante: abbiamo perso i genitori come modelli, i punti di riferimento saldi, siamo stati abbandonati a noi stessi»[15].
È significativo che autori delle più diverse scuole di provenienza individuino in particolare nell’assenza della figura paterna, accentuatasi drammaticamente negli ultimi decenni, una delle principali ragioni del vuoto di senso e di identità che sembra accomunare i giovani come gli adulti. Un autore che non può certo essere tacciato di tradizionalismo nostalgico osserva in proposito: «Il vuoto strutturale della moderna società occidentale proviene dall’assenza del padre. In un certo senso l’affievolimento o addirittura la scomparsa di tutti gli altri ruoli parentali derivano da quella lacuna che sta al vertice della famiglia»[16]. In questa mancanza si annida infatti l’incapacità di una generazione di trasmettere valori e tradizioni in grado di aiutare il futuro adulto ad affrontare le difficoltà della vita, divenendo a sua volta capace di educare altri.
La scomparsa del vincolo familiare è stata purtroppo salutata come segno profetico dell’avvento di una nuova società; negli anni Settanta del secolo scorso si era auspicata la morte del matrimonio e della famiglia, vista come il simbolo dell’oppressione che penalizza la libertà dell’individuo impedendo l’autorealizzazione[17]. I risultati si sono rivelati tuttavia molto diversi, forieri di problemi ben più gravi, che rischiano di portare alla scomparsa della società occidentale, come rileva sempre Scalfari: «Nella maggioranza dei casi l’individuo, abbandonato alla sua solitudine, non ha trovato altro rimedio che quello di confondersi nel branco, cioè in un soggetto anonimo e indifferenziato, sorretto soltanto da motivazioni emozionali»[18].
Non è più la comunità o l’appartenenza sociale, ma «il branco» a caratterizzare la società senza adulti, una società che ha abdicato al suo compito educativo.

- I Proci, figli di un padre assente

Questa linea di lettura trova conferma anche nella mitologia, in cui vengono narrate la storia dell’uomo e della donna di ogni tempo. La categoria del «branco» ricorda i Proci, magnificamente descritti da Omero, quella massa numerosa (108 secondo Odissea XVI, 247s), violenta e parassita, preda dell'aggressività sfrenata.
Proprio come Peter Pan, essi non sono più bambini, ma neppure uomini; non hanno fatto alcuna scelta nella loro vita; vivono alla giornata, di espedienti, godendo dell’istante, senza alcun progetto per cui valga la pena impegnarsi. L’attualità psicologica e sociale di questi personaggi è degna di nota: «I Proci [ ... ] sono la massa superflua che subito riempie ogni vuoto di potere nella società. Ma nella psiche sono l’avversario interno, la disgregazione della responsabilità [ ... ]. Ciò che di loro Ulisse odia senza scampo non è l’arroganza - che non gli è così estranea -, ma l’agire alla giornata, senza scopo: l’atto superfluo (anenysto epi ergo) [ ... ]. Ciò che essi rappresentano non può essere riammesso nella civiltà, pena la sua disgregazione: l’ilarità, in cui l’immaturo nasconde la paura; la giornata per arrivare a sera; l’ostinazione a conquistare la donna e la casa, la regina e il palazzo, senza la disponibilità a organizzarne il sistema familiare ed economico. Ancora una volta, il quadro del giovane disadattato»[19].
Lo svolgimento narrativo dell'Odissea fa acutamente notare come essi facciano la loro comparsa all’indomani della scomparsa del padre. La partenza di Ulisse porta alla loro proliferazione: i Proci possono essere considerati la raffigurazione ante litteram di Peter Pan. L’accostamento non è forzato: è la stessa mitologia greca a mettere questi personaggi in stretto collegamento tra loro. Pan sarebbe infatti il frutto delle molteplici unioni dei Proci con Penelope durante l’assenza di Ulisse[20].
Messi di fronte alla «prova dell’arco» (che, come vedremo, è un simbolo della paternità) si mostrano incapaci di imbracciarlo, cioè di assumere una responsabilità generativa che può fare di loro degli uomini. Hanno età differenti, eppure si presentano come una classe unica, amorfa, senza identità.

- Il compito di diventare adulti

Ma che cosa significa essere adulti? Significa anzitutto accettare di non essere più bambini, rinunciando ai valori e atteggiamenti dell’età precedente per assumerne di nuovi: la rinuncia è la condizione della crescita, come aveva intuito Scheler[21].
Lasciare una fase: questo è quello che l’adulto odierno non sembra più capace di fare, anzitutto a livello immaginativo, rimpiangendo il bambino o l’adolescente che non è stato. Si tratta invece di accogliere quello che Freud chiamava il principio di realtà, che passa per una ferita, un’esperienza di impotenza e di mortalità che, paradossalmente, nel momento in cui vengono assunte, rafforzano l’essere umano.
Questo era il significato dei «riti di passaggio» o di iniziazione, che nelle società di ogni epoca segnavano l’ingresso del giovane nell’età adulta, mediante cerimoniali condotti dagli adulti. I riti di iniziazione risultano fondamentali, perché hanno ad oggetto l’aggressività, la sofferenza e la morte, in altre parole l’essere umano nella sua verità e fragilità. Il rito poteva fare questo, perché ricordava la sacralità della vita e la sua relazione con Dio; questo era il significato del gesto di strappare il bambino dalle braccia della madre (che fino a quell’età era il punto di riferimento peculiare) per elevarlo al cielo, un gesto con cui egli riceve la conferma della propria identità: «Il significato di questo gesto è chiaro: si consacrano i neofiti al Dio celeste»[22]. Questo compito è sempre stato peculiare del padre.
Quando vengono disattesi, i riti di iniziazione non scompaiono, ma impazziscono, dando origine alle derive del branco. Le violenze delle baby gang, il bullismo maschile e femminile, gli stupri di gruppo, lo sballo del sabato sera, i comportamenti a rischio, assumere droga in gruppo, l’attrazione verso l’horror sono riti di iniziazione impazziti, richieste degenerate di prendere contatto con la dimensione della corporeità, della relazione, dell’aggressività, del pericolo, della morte, ma senza che vi sia più un adulto capace di accompagnarli.
La scomparsa dell’adulto si traduce anche in una ridefinizione dei ruoli familiari: non sono più i figli a dover imparare dai genitori e a ricevere da loro norme e insegnamenti, ma al contrario sono i genitori che si conformano ai criteri e ai comportamenti dei figli, cercando in questo modo di ottenere la loro approvazione.

- La necessità di un modello

Per essere adulti si deve dunque aver subìto quella ferita, quello «strappo» che caratterizza l’ingresso nella realtà rappresentata dai riti di iniziazione. Prendere contatto con quella ferita significa per il giovane riconoscere e accogliere la propria fragilità. Ciò gli consente di affrontare la realtà, abbandonando le fantasie puerili e riconoscendo i propri desideri profondi.
Diventare adulti non significa affatto credersi onnipotenti, privi di difetti e di limiti, ma occupare il proprio posto, accettando la possibilità di sbagliare, accogliendo il tempo che passa[23].
Il primo insegnamento che Dio dà all’uomo nella Bibbia è proprio questo: se vuoi vivere, se vuoi gustare la vita, ricordati che sei creatura, che non sei Dio. Ciò è espresso dal divieto di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male (cfr Gn 2,16 s): nel brano quell’albero simboleggia Dio stesso, e l’uomo deve guardarsi dalla brama di volerne prendere il posto, perché finirà per distruggersi.
In questo insegnamento si possono racchiudere le tre tappe fondamentali dello sviluppo umano: la nascita, lo svezzamento, la sconfitta edipica. Esse costituiscono tre differenti sconfitte dell’onnipotenza, sono tre «punti di non ritorno» propri della crescita (nei confronti della condizione prenatale, dell’allattamento, di un legame esclusivo con la madre), indispensabili per entrare nella realtà, per essere «vivi». Se compiute correttamente, queste tre rinunce consentono, nell’età adulta, di compiere scelte definitive; d’altro canto, la maggior parte delle difficoltà e del disagio di vivere è legata proprio a questi tre aspetti.
Alla radice di molte richieste di aiuto psicologico c’è spesso la non accettazione della propria verità di creatura, segnata dal limite e dalla fragilità: non si accetta se stessi, anzitutto il proprio corpo (si pensi al boom della chirurgia plastica e del lifting, con conseguenze anche gravi per la propria salute, ma anche a disturbi alimentari come la bulimia e l'anoressia), non si accetta la propria famiglia di provenienza, la propria storia e personalità.
Compito fondamentale della madre e del padre, il quale, come si è visto anche in altre occasioni, è un simbolo potente del Padre celeste, è ripresentare ai propri figli questo insegnamento della Genesi[24], di prendere consapevolezza del proprio limite, condizione essenziale per diventare adulto e portare frutto nella propria vita. Essi possono fare questo perché hanno precedentemente fatto i conti con la loro fragilità, con la loro ferita originaria[25].
Se essi vogliono invece risparmiare ai figli ogni genere di difficoltà, questo porterà all’emergere di dubbi e frustrazioni interiori, che minano alla radice la stima di sé e la capacità di assumersi responsabilità. I figli soprattutto troveranno problematico accedere ai loro desideri profondi, a ciò che veramente vogliono dalla loro vita: «La clinica dei cosiddetti nuovi sintomi mostra bene come il problema dell’attuale disagio della giovinezza non sia tanto quello del conflitto tra il programma della pulsione e quello della Civiltà [ ... ], ma di come accedere all'esperienza del desiderio [ ... ]. La crisi attuale dell’operatività dell’ordine simbolico coincide con la crisi del potere di interdizione, ma anche con la difficoltà della trasmissione del desiderio da una generazione all’altra»[26].
Si tratta di saper porre dei «no», dei limiti, impopolari certamente, ma che consentono di accedere al desiderio del cuore e rendono capace di superare gli ostacoli che si frappongono al loro conseguimento. Il limite e la frustrazione sono un elemento essenziale dell’educazione, purché accompagnati dall’affetto e dalla fiducia.
Talvolta è il figlio stesso a chiedere che questo limite e una relazione dissimmetrica (da adulto a figlio) vengano posti, anche in forma non verbale, come nel caso di una ragazza sorpresa a rubare nei grandi magazzini: «Questa giovane non sta semplicemente frodando la Legge o godendo del brivido per la sua trasgressione. In un modo paradossale sta facendo proprio il contrario: sta cercando di essere vista, di essere notata dalla Legge, cioè di fare esistere una Legge. Qualcuno mi vede? Qualcuno mi può aiutare a non perdermi, a non smarrirmi? Esiste da qualche parte una Legge o, più semplicemente, un adulto che può rispondermi, che può accorgersi della mia esistenza? La domanda dei nostri giovani insiste e ci mette con le spalle al muro: esistete ancora? Esistono ancora degli adulti? Esiste ancora qualcuno che sappia assumersi responsabilmente il peso della propria parola e dei propri atti? Nella cleptomania di questa ragazza possiamo cogliere tutta la cifra del disagio della giovinezza contemporanea»[27].
Il figlio può comprendere il valore del limite se vede nel genitore non un tiranno che lo schiaccia, né il «compagnone» che si mette alla sua pari dicendogli sempre di sì, ma qualcuno che lo introduce con affetto alla realtà nella sua dimensione di mediocrità e di fragilità. L'adulto può fare questo perché per primo l’ha accolto in se stesso. Ciò gli consente di non mettersi sullo stesso piano di colui che è chiamato a educare, e di non cedere a ricatti affettivi.
Non si tratta certamente di un compito facile: esso tuttavia è l’unico modo per non rendere il figlio schiavo dei propri capricci. L’incapacità di dire no è uno dei segni più forti della crisi dell’adulto e del pericoloso rovesciamento della sconfitta edipica, un rovesciamento inedito, in cui sono i genitori a chiedere ai figli di essere riconosciuti[28].

- Riprendere l’arco di Ulisse

La crisi dell’adulto, riconosciuta e descritta dalla mitologia, può trovare nella stessa mitologia anche possibili vie di uscita. Tutta la prima parte dell’Odissea viene chiamata la «Telemachia», la ricerca affannosa del padre assente da parte del figlio. Egli non si rassegna alla sua scomparsa, desidera vedere il padre anche se non l’ha mai veramente conosciuto, brama di poterne avere anche semplicemente un’immagine da imprimersi nella mente[29].
La vicenda di Telemaco è molto simile alla situazione del giovane attuale. Per entrambi non sono certo le cose che mancano, né il benessere; essi si scoprono piuttosto sprovvisti di quella rappresentazione ideale di sé che solo il padre è in grado di dare.
Nell’Odissea Ulisse può essere finalmente riconosciuto come padre soltanto quando, al termine del poema, il figlio lo vede imbracciare l’arco, con fare dimesso, ma deciso: «Sembra che Omero abbia pensato ai nostri tempi e ci abbia avvertiti: il padre non scompare mai del tutto. Ma non crediate di ritrovarlo nei maschi rumorosi: quelli sono i Proci, gli eterni non-adulti. Se qualcuno invece è umile, paziente, potrebbe essere lui, sopravvissuto a guerre e tempeste»[30].
L'arco può simboleggiare il ruolo e il compito del padre, che non è delegabile; e difatti nessuno dei Proci è in grado di maneggiarlo, perché non ne hanno l’autorità. Ma il padre di cui qui si parla non è affatto il padre-padrone che ha caratterizzato le nostre società degli ultimi due secoli, portando infine al suo rifiuto e allontanamento. Ulisse invece, precisa Omero, sa tendere l’arco come un musicista accarezza la sua arpa, associando con questo gesto le due funzioni essenziali del padre: la forza e la dolcezza[31].
Solo quando è in grado di unire in sé queste due virtù, l’autorità e la tenerezza, Ulisse può nuovamente tendere il suo arco e mettere fine alla «notte dei Proci»[32].

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