di Costanza Miriano
Sono un’esperta di liti. Credo che quando i figli saranno cresciuti tenterò la carriera diplomatica (in preparazione ho rubato a mia mamma la borsa blu di Hogan con cui sarò perfetta alla mia prima riunione internazionale a Ginevra): ho mediato conflitti a spada di legno per cioccolatini dello stesso sapore, ma purtroppo uno dotato di incarto verde con strisce oro, uno oro con strisce verdi; zuffe a pizzichi per una scarpa di Barbie; crisi isteriche per un “sei stolta” “allora tu sei basso” (le parolacce qui da noi sono come il sarin). Non ho paura di nulla: so che ci possono volere ore per ricostruire un’azione di pallacorridoio senza la prova televisiva, ascoltando le diverse versioni e anche interpellando testimoni.
Mantengo la calma, sudo silenziosamente e perdo raramente la pazienza (mamma, tu parli sempre piano, ma certo quando urli ti sente tutto il mondo, anzi tutta l’università!). Anche tra fratelli, anche quando ci si vuole bene (fingerò di non aver sentito quel “volevo che ero figlio unico”) è dura dividersi gli spazi vitali, figuriamoci tra estranei, in altri contesti.
Il fatto è che il problema non sono gli altri, siamo noi, e non ci sono regole che tengano, non bastano, pensa, neanche i festival estivi sulla legalità o le predichelle dei santoni sulla bellezza delle regole.
Il baco sta nella natura degli uomini, che trovano il modo di fare distinguo, divisioni, precisazioni, anche quando sono impegnati nella migliore delle battaglie, anche quando sono pochi e isolati, anche quando dovrebbero serrare le fila.
Purtroppo anche noi cristiani, che guarda caso siamo uomini col baco esattamente come tutti gli altri, troviamo quasi sempre – sempre? – il modo di dividerci e di accusarci. Oppure, anche senza accuse o cattiverie, magari semplicemente non riusciamo a unirci, perché costa a ognuno di noi togliere la propria impronta all’impresa che stiamo cercando di compiere. A volte perché pensiamo in buona, ottima fede, che senza di noi le cose potrebbero andare male, e ci dispiace mollare il controllo perché teniamo troppo alla causa. Altre volte perché ci costa troppo non lasciare la firma su quello in cui abbiamo investito.
Il problema è che fino a che noi vogliamo essere qualcuno, non possiamo essere veri discepoli di Gesù Cristo, che ci ha detto di perdere la nostra vita, di morire come il chicco di frumento.
L’unico vero punto cruciale della nostra vita è il nostro rapporto personale con lui. Mediato dalla Chiesa, è chiaro, tramandato dalla tradizione, alimentato dai sacramenti, nutrito dalla dottrina. Ma personale. Diretto, leale, onesto. Un rapporto che ci spacca, che cambia tutta la nostra vita, che rende diverso ogni nostro gesto da come lo faremmo se non fossimo cristiani. Tutto il resto sono accidenti.
Fuori di metafora – mi sa che sono stata un po’ troppo sul vago, era per non troncare sul nascere la mia carriera diplomatica, e precludermi così la possibilità di comprare altre borse – volevo dire quanto mi dispiaccia che su certe battaglie, come quella per la vita o quella contro la cosiddetta legge anti omofobia, non si trovi il modo di fare un fronte comune passando sopra le perplessità di metodo o tutte le altre possibili; quanto trovi assurdo che si litighi – per alimentare polemiche inutili e tirare fuori il peggio da tutti noi la rete è insostituibile – addirittura su come si dovrebbe digiunare; quanto mi addolorino i commenti sarcastici che ci scappano sugli altri cristiani che hanno una sensibilità diversa dalla nostra: modernisti e tradizionalisti, schitarratori e amanti del gregoriano, pacifisti e nostalgici delle crociate. “Vi riconosceranno da come vi amerete”. Tanto, senza lo Spirito Santo, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa. Come ci solleva dal giudizio questo pensiero!
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